
“Visto da vicino nessuno è normale” sono parole che si incontrano a ogni angolo. Direi che il gruppo, di circa 120 persone, che si assembra nella sala principale è a-normale sia da vicino che da lontano. Un gruppo che non norma, che non normalizza, e non si fa normare. Piuttosto cambia le regole del gioco. E gioca giochi nuovi.
Che cos’è la facilitazione?
La facilitazione è un ambito che sfugge alle definizioni. Nel libro “Facilitiamoci! Prendersi cura di gruppi e comunità” io, Melania Bigi e Martina Francesca abbiamo provato a raccontarla così: “La facilitazione ha a che fare con i gruppi, con le dinamiche che accadono quando le persone si mettono insieme per realizzare qualcosa e sperimentano la gioia e la fatica del progettare e giungere alla fine di un processo. Interviene non sul cosa fare ma su come fare, perché tutti siano partecipi e protagonisti fino alla fine del processo deciso e avviato. In questo senso trova campi di applicazione ampi: è facilitazione ciò che supporta la naturale evoluzione di un processo, sia personale che collettivo. Forse è un’arte, forse una disciplina, forse una scienza sociale.”
La facilitazione in Italia
In Italia esiste una rete diffusa e non strutturata di facilitatori e facilitatrici, con gruppi di lavoro che si incontrano e si riuniscono, a volte in base alle pratiche o metodologie che utilizzano (Dragon Dreaming, Art of Hosting, Teoria U…) o per una specifica collaborazione, per affinità con una rete (io faccio parte di un gruppo legato a Transition Italia) o magari per vicinanza geografica. Molti sono i freelance, altri lavorano all’interno di aziende o in associazioni e cooperative.
A Milano si è parlato di “cugini”, un raduno di famiglia in cui non ci si conosce tutti, ma si riconoscono segmenti comuni di DNA. Mi guardo intorno alla riunione plenaria di chiusura e gioco a riconoscere somiglianze e differenze. C’è chi lavora soprattutto nel business, chi ha a che fare con la pubblica amministrazione, chi come me lavora con le comunità e la cittadinanza. Differenze di linguaggio e stile, oltre che nelle sfide da affrontare. Tra le cose in comune riconosco l’attenzione all’ospitalità, all’accoglienza, alla scelta e cura dello spazio. La facilitazione insegna che il contesto in cui incontriamo influenza l’andamento della riunione e la qualità delle decisioni. Un facilitatore si riconosce (anche) da questo: appena entra in una stanza controlla se c’è spazio alle pareti e si mette subito a spostare le sedie.

La Conferenza Italiana Facilitatori
La sede della conferenza è ideale: facile da raggiungere, con viali alberati, una pioggia di foglie d’autunno, verde tutto intorno e sale diverse in cui lavorare, incluso un teatro. Gerardo de Luzenberger, Alessia Tulli e i colleghi che in qualità di capitolo italiano dello IAF, associazione internazionale di facilitatori, hanno organizzato questo incontro hanno fatto un lavoro elegante e certosino di organizzazione. Apprezzo e mi stupisco del book dei partecipanti, con foto, biografie e contatti.
La conferenza è organizzata con laboratori in parallelo, offerti volontariamente e comunicati in anticipo. Una seconda parte invece è in Open Space Technology (OST), una modalità in cui ciascuno può contribuire al programma temi di discussione. I principi dell’Open Space sono libertà e responsabilità e una attitudine spicca su tutto il resto: dovunque tu sia, è il posto giusto.
Riconosco intorno a me un po’ di frustrazione: vorremmo tutti partecipare a tutti gli incontri, sapere tutto quello che è successo e conoscere tutte le persone presenti. Sento l’ansia di “perdermi qualcosa”. In queste occasioni, quando la scelta è tanta e ci si vorrebbe riempire il piatto come ad un aperitivo milanese, è utile mettere a fuoco con chiarezza la propria intenzione. Prima di cominciare faccio una passeggiata tra gli alberi, in questa quiete che a Milano non ti aspetti, e fisso su carta le mie intenzioni per queste giornate. Da quelle pratiche (“Conoscere almeno tre persone che verranno ai miei prossimi workshop”) a quelle emotive (“Sentirmi centrata e presente”) alle cose che vorrei approfondire o imparare.
Art of Hosting
Il primo workshop a cui partecipo è condotto da Valentina Catena e Eduardo Giordanelli. Si parla di Art of Hosting. Mi piace sempre molto quando a facilitare sono due persone, che incarnano stili e modi di fare diversi. Eduardo e Valentina ci presentano quattro pratiche alla base dell’Art of Hosting:
- Ospitare se stessi
- Essere ospitati
- Ospitare gli altri
- Fare parte di una comunità
Dopo una breve spiegazione, ci viene chiesto di disporci nello spazio in una mappatura in base ai nostri punti di forza e di debolezza ed appare evidente come questo sia un mestiere fatto da persone per le quali mettersi a servizio, a disposizione degli altri (“Ospitare”) è più facile che prendersi cura di sé.
Fortuna nostra, nella rete di facilitazione abbondano le risorse per fare anche questo. Un po’ tutta la conferenza è un coccolarsi, prendersi cura gli uni degli altri con generosità ed abbondanza di doni, contatti, insegnamenti (e dolci della cooperativa sociale Fabbrica di Olinda). La commistione di facilitazione e bodywork, lavoro con il corpo, discipline come lo yoga o l’aikido, e il lavoro artistico e teatrale emerge come un confine fertile.
Il corpo sa
Subito dopo Art of Hosting mi metto a disposizione come interprete per il laboratorio proposto da Uri Noy-Meir e Manuela Bosch, intitolato “Il corpo sa”. Manuela, che fa parte di Vanilla Way, una rete di facilitatori basata a Berlino, propone esercizi che vengono dal Social Presencing Theatre, o teatro di presenza sociale. Ci invita a muoverci nello spazio, ad ascoltare le sensazioni, a spostare l’attenzione dal nostro centro, al gruppo, ad un’altra persona. Ci fa notare quante informazioni emergono, a proposito di noi, degli altri. Verbi come seguire, guidare, essere seguito, essere guidato parlano di come ci muoviamo nello spazio, in relazione con le altre persone, e allo stesso tempo parlando di leadership, autonomia, dinamiche di potere.

Lego Serious Play
Durante OpenFlow, un raduno di facilitazione che ho co-organizzato lo scorso Agosto a Panta Rei, ho imparato molto dai bambini. I bambini nel gioco apprendono rimanendo pienamente focalizzati sul processo, ovvero su ciò che accade nel momento, a prescindere dal risultato. Sento la stessa energia durante il laboratorio di Lego Serious Play, condotto da Marco Ossani.
Lego Serious Play è una metodologia di facilitazione basata sulla manipolazione di oggetti, e su quello si chiama flow, entrare nel flusso in cui siamo presenti, mai annoiati e partecipi perché la sfida richiede tutte le nostre capacità. Marco ci propone di creare metafore della facilitazione con i mattoncini colorati. Le nostre mani fanno nascere ponti, strade, supporti, sostegni, stanze, strutture che collegano le diversità, scene di leadership e potere, giardini. Mi colpisce una partecipante che ha costruito una chiave e legge nella facilitazione sia chiave che serratura. Facilitando accade spesso uno “sbloccare”, un aprirsi, un unlocking di risorse che erano già presenti nella stanza, nel gruppo, nell’azienda o nella comunità, ma che non erano a disposizione, evidenti, utilizzabili.
Open Space sul terremoto in centro Italia
Sono venuta a Milano con l’intenzione di essere “ospitata”, come direbbero nell’Art of Hosting, ma alla fine non resisto e, insieme a Uri e Francesca Scafuto, propongo un tavolo di lavoro per l’Open Space. Il tema è il terremoto del centro Italia: come possiamo contribuire con le risorse della facilitazione alla ricostruzione di resilienza nei territori colpiti? Io, Uri e Francesca siamo infatti coinvolti in un’iniziativa in collaborazione con Amatrice 2.0, un progetto per il sostegno delle comunità locali con i metodi delle Transition Town e della permacultura. Nel proporre di parlarne qui sono curiosa di sentire altre esperienze di facilitazione usata in contesti di emergenza e post-emergenza.
Si forma un gruppetto. Cominciamo dedicando un momento di silenzio alle vittime, poi raccontiamo le nostre storie, cosa ci ha toccato e perché siamo stati attratti dal tema. Anche tra facilitatori… ci facilitiamo: abbiamo una scriba che prende appunti su grandi fogli di carta, visibili a tutti. La conversazione è profonda, e dall’ascolto reciproco si passa con naturalezza alla voglia di contribuire e alle strategie per farlo. Le risorse sbloccate sono tante: reti di contatti, esperienze, sostegno e voglia di fare e comunicare.
Nella chiusura, raccontiamo con il corpo come siamo stati e come ci sentiamo, guidati da Uri. Le posizioni parlano di trasformazione, apertura e del doppio significato della parola emergenza. Emerge l’interesse a creare un gruppo di facilitazione in appoggio ai processi in corso ad Amatrice e ci diamo appuntamento per questo ad Amatrice ReGeneration, un momento di co-formazione e progettazione organizzato a Panta Rei, per vederci fuori dal luogo dell’emergenza, osservare quello che emerge e condividere risorse e strumenti per azioni sul territorio.
Esco tra le ultime dalla conferenza, mi metto all’ingresso e faccio per un po’ la guardiana dell’uscita, tra tanti abbracci e saluti.