
Articolo originale pubblicato il 27 ottobre 2015
Julie Brown è la direttrice di Growning Communities, un’impresa sociale di Hackney nel nord est di Londra. Growing Communities coordina la consegna di verdura a 1000 famiglie ad Hackney e gestisce il mercato settimanale dei produttori Stoke Newington. L’impresa fa agricoltura urbana, quella che chiamiamo “coltivazione ad appezzamenti” su piccoli siti a Hackeney e in siti più grandi a Dagenham. Inoltre conduce progetti di lancio di startup, collaborando con altre comunità per aiutarle a predisporre progetti simili.
Abbiamo iniziato col chiedere a Julie com’è un progetto di cibo equo. Quali sono i suoi criteri e le sue componenti?
“E’ abbastanza difficile separare il concetto di un sistema equo da uno
sostenibile, quindi ho intenzione di mescolarli. In termini generali un sistema equo dovrebbe pagare i contadini che coltivano in modo sostenibile. Dovrebbe pagarli ad un prezzo onesto così che loro possano vivere e crescere. In altre parole, è probabilmente una delle cose che lo distingue dall’attuale sistema di produzione alimentare. I contadini che stanno provando a fare le cose correttamente, per il pianeta, per la salute e per altri elementi che desideriamo per avere del cibo fantastico, sono quelli che trovano quasi impossibile sopravvivere nel sistema attuale. C’è una forte scorrettezza di base. E’ da lì che probabilmente inizierei.
Un sistema corretto produrrebbe cibo buono ed economicamente accessibile a tutti. Sarebbe equo con chi lavora. Servirebbe a pagare un prezzo onesto a chi lavora nelle rivendite e nella coltivazione, a chi conduce queste imprese e sarebbe corretto verso le comunità, che avrebbero voce in capitolo su come andrebbero gestite, sarebbero in contatto con le fattorie, con chi produce il loro cibo e così tutta la gestione delle attività non sottrarrebbe valore dalla comunità. Anzi, reinvestirebbero nelle comunità e sarebbe positivo per il pianeta, perché non impoverirebbe il terreno, riducendo la biodiversità e causando il caos climatico.
Perché per te è più sostenibile portare la produzione più vicino al luogo dove si vive? Un punto focale del tuo lavoro ruota attorno a come riportare sul posto la produzione di cibo.
Anche riguardo a questo c’è un un buon numero di elementi in giorco. C’è l’aspetto del chilometro zero, anche se in effetti è minoritario. Il cibo prodotto vicino a dove si consuma tende a essere più fresco ed comporta meno problemi di trasporto e produzione.
Ma è anche una questione di trasparenza e relazione. A mio avviso si ha un rapporto migliore con ciò di cui si conosce la provenienza e il coltivatore. Un rapporto che diventa più sostenibile e rispettoso, perché è più trasparente. Non possiamo esserne certi, ma è questa la tendenza.
Ci preoccupiamo dei nostri coltivatori in termini molto pratici. Sappiamo chi sono. Vogliamo che prosperino. Vogliamo che possano gestire la loro coltivazione e che continuino a produrre il loro fantastico cibo. E vogliamo fornirlo alla gente che viene al mercato e che compra col sistema delle cassette di ortaggi e frutta fresca preparate direttamente dai produttori, a un prezzo onesto. Se guardiamo al lato economico dei nostri progetti, cerchiamo di assicurarci di iniziare dal costo per il contadino, che gli paghiamo il prezzo necessario a fare agricoltura in modo sostenibile. Siamo in totale controtendenza rispetto alla direzione prevalente nel sistema produttivo attuale, in cui la produttività è definita dall’ottenere il massimo raccolto con la minore quantità di denaro e lavoro possibile. Tutti gli altri costi esterni del sistema di produzione, il degrado del suolo, l’impatto climatico e sulla natura, non vengono calcolati. Il modo in cui definiamo ciò che è “buono” iè totalmente contrario alla produzione di cibo in modo onesto e sostenibile. I coltivatori che stanno provando a non lavorare in quel modo sono stati spinti fuori dal mercato.

Quello che stiamo cercando di fare alle Growing Communities è aprire un dialogo aperto come comunità con questi contadini, dicendo: “Compreremo il vostro prodotto ad un prezzo onesto”. Iniziamo da qui. Poi escogitiamo un modo per pagare, come il sistema delle cassette ad Hackney e il farmers market, in modo che anche i coltivatori possano lavorare veramente in questi progetti.
Ci impegniamo a corrispondere una remunerazione pari al costo della vita a Londra, e abbiamo una sistema di pagamento di 2 a 1, ossia nella nostra organizzazione nessuno guadagna più del doppio del collaboratore con il salario più basso . Inoltre stiamo studiando come vendere il prodotto al prezzo più accessibile.
Ma iniziamo col principio di base: dobbiamo pagare il prezzo richiesto per avere cibo prodotto in un modo che non produca i noti effetti negativi e che abbia un impatto positivo. In questo modo, ricollegandoci ai produttori e creando imprese locali, possiamo fare comunità, come suggerisce il nostro nome. Possiamo fare comunità, creare occupazione e il terzo punto è la nostra struttura organizzativa, che, di nuovo, si oppone a ciò che non va nell’attuale sistema del cibo.
Diciamo con forza che siamo guidati dai principi, e non dal profitto. Siamo senza scopo di lucro. Vogliamo coprire i nostri costi e vogliamo avere un guadagno e lo vogliamo reinvestire nei nostri progetti e nella nostra comunità.
Prima dell’intervista discutevano degli ecomodernisti, che sostengono: più si produce su larga scala, più possiamo estendere i terreni coltivabili alla natura, così puoi puoi produrre cibo più economico e avere più biodiversità. Non sarebbe un buon metodo?
Mmm, no. Questa è la risposta breve.
La risposta lunga? Ci sono così tanti argomenti tipo 1 + 1 = 5 al momento. Dobbiamo, credo, accettare che ci sono dei limiti. Ci sono limiti biologici e naturali a ciò che possiamo fare per vivere in modo sostenibile. Ora, direi, tornando a questi ecomodernisti, non penso che abbiano accettato che esistono dei limiti.
Sono felice di applicare la scienza, la tecnologia e la creatività a questioni riguardanti il cibo e l’agricoltura e in effetti a ogni cosa. Ma è necessario farlo all’interno di una cornice che considera i limiti naturali. Esistono limiti climatici, dovuti al suolo, all’acqua. Un giorno la gente discuterà di raccolti, si tornerà a confrontarsi su raccolto e produttività.

Ma, se guardiamo al cibo e al metodo di coltivazione attraverso una diversa lente produttiva, una che consideri veramente il lavoro come un risultato positivo del sistema, non un costo, e che dia un costo alle risorse energetiche e alle altre risorse necessarie a produrre cibo, allora la produzione su piccola scala appare più vantaggiosa. Non sto dicendo che rimpiazzeranno completamente l’altro sistema, ma penso che in alcuni casi sì.
Noi pensiamo che i fondamenti di un’ agricoltura e di un sistema di produzione di cibo onesto e sostenibile siano le imprese medio-piccole. Non stiamo dicendo che una sola misura va bene per tutte. Ne stiamo parlando in termini di “cibo sussidiario”. Stiamo anche parlando di una scala appropriata e di produzioni su varie scale, che dipendono dal cibo prodotto, se da aratura, da bestiame o da orti, considerando che tutti questi sistemi hanno un valore reale, se coniugati.
Noi sosteniamo un metodo agricolo misto. Bisogna analizzare anche la catena di rifornimento, il tipo di alimentazione e ciò che la gente si aspetta di mangiare. E’ complesso, se pensiamo agli allevamenti e a quali e quante varietà di cibo si dovrebbero consumare. La nostra ultima mappa delle Zone del Cibo descrive il tipo di metodo agricolo che consideriamo la base della nostra prospettiva – sistemi di varia misura ma misti, a basso consumo di risorse, tendenzialmente biologici, utilizzando lavoro e abilità manuali. E’ è sostenuto da scienza, tecnologia e macchinari, ma su basi scientifiche concrete.

Le basi scientifiche derivano dall’osservazione di cosa succede in un sistema complesso come l’agricoltura, ma dobbiamo valutare anche che dobbiamo adottare una alimentazione principalmente basata sul consumo di alimenti di origine vegetale, sostanzialmente freschi, limitando la quantità di cibo trasformato e riducendo i rifiuti. Tutto ciò produrrà una dieta davvero salubre. Ma dobbiamo pagare i contadini per produrre in questo modo.
Hai parlato della tua mappa del cibo in qualche discorso e la gente la trova affascinante per le sue implicazioni e la sua fattibilità a Londra, nel bel mezzo del suo contesto produttivo e distributivo. Mi chiedo se puoi darci un’idea di come sia nata e di quali siano le sue conseguenze principali.
Viene da molti anni di lavoro nella zona, mettendo assieme tutti gli elementi della visione di come vorremo funzionasse il sistema del cibo e dell’agricoltura. E’ basata sul nostro modo di lavorare, molto pragmatico. Le percentuali sono basate su ciò che riusciamo a fare col sistema delle cassette dagi produttori ai consumatori.
Con le cassette commerciamo solo frutta e verdura, quindi per ciò che riguarda un assortimento più vasto, dobbiamo ripensare il sistema. Al momento sto lavorando ad un progetto per creare un nuovo modello, vedremo che tipo di alimentazione si potrebbe sostenere procedendo in tal senso. Anche in questo caso mi piacerebbe metterlo in pratica con un approccio molto pratico, individuando il migliore esempio che si trova al momento in ogni zona per poi moltiplicarlo per il numero delle zone in rapporto all’estensione di terra teoricamente disponibile, e vedere poi che tipo di cibo e quanto cibo produrrebbe.

Ma poi dovrò cambiare le percentuali, è sempre necessario. Ci basiamo sulla conoscenza intuitiva di una serie di fattori. Mi piacerebbe testare il sistema, ma penso che in fin dei conti lo proverò mettendolo in pratica. In realtà lo stiamo già facendo, perché quando la zona di produzione del cibo è stata disegnata per la prima volta, c’erano solo piccole, rare iniziative mentre oggi ce ne sono molte di più. Un sacco di gente si avvicina all’agricoltura e al commercio e a schemi di collaborazione e supporto, nonché all’agricoltura urbana e a un sacco di nuove e incredibili iniziative che meriterebbero più visibilità, con le loro conseguenze. Bisognerebbe far vedere che stanno realmente iniziando a creare una vera alternativa al sistema mainstream della produzione e vendita di cibo.
Quando mostro tutto questo nei miei discorsi, dico talvolta che per me è come la mappa della nuova economia. Se avessi oggi 18 anni, penserei – voglio formarmi e imparare a essere un buon coltivatore, un produttore di birra o un coltivatore di funghi o qualcos’altro. Ci sono così tante possibilità per tutti, è fantastico.
Grazie, ho sentito un discorso in cui lo dicevi. Lo dobbiamo provare adesso! Lo dobbiamo provare con i fatti. E’ questo che conta. L’approccio di Growing Commmunities è sempre stato sia stato teorico che empirico. E’ una visione visione complessiva, andiamo là fuori e creiamo qualcosa che alla fine si traduce in realtà.
Traduzione di Rita Maleddu
Fonte: https://www.transitionnetwork.org/blogs/rob-hopkins/2015-10/julie-brown-food-and-fairness
Pubblicata il 27 Ottobre 2015 da Robert Hopkins.