
Articolo originale pubblicato il 19 dicembre 2014
Pandora Thomas è insegnante, scrittrice, relatrice e designer. Attualmente vive a Berkeley, California è fondatrice della rete Black Permaculture Network, cofondatrice della società di consulenza Earthseeds, e ideatrice assieme ad altri del programma Pathways to Resilience (Sentieri della Resilienza). Abbiamo cercato di avere una sua intervista per diversi mesi, e con grande piacere la condividiamo con voi. Iniziammo col chiederle di raccontarci qualcosa di più sul progetto Sentieri della Resilienza.
“Esiste un’opportunità che è venuta fuori da ciò che chiamiamo il Complesso Industriale del Sistema Carcerario. Non ho intenzione di addentrarmi nella questione ma c’è negli Stati Uniti, in generale, un alto tasso di detenzione e circa il 60% delle persone detenute appartiene alle comunità di Afro-Americani, Latino-Americani, Asiatici, Nativi. Una vera sproporzione!
Non è letteralmente possibile che il 60% delle persone di colore abbia commesso crimini! Il problema è nel nostro sistema giudiziario. Le prigioni sono sovraffollate. La California rilascia i detenuti prima del tempo, e sempre più persone si rendono conto che è assurdo, paghiamo in pratica per dare alloggio a milioni di persone invece di agevolarne il cambiamento e miglioramento.

In California abbiamo il cosiddetto reinserimento. C’è dappertutto, ma qui abbiamo una forte iniziativa di reinserimento che cerca di tirar fuori la gente dalle prigioni, specialmente trasgressori non violenti. Perciò la domanda è perché stanno scontando una pena? Dobbiamo sostenerli davvero, e guardare l’aspetto il lato economico. Spendiamo circa 47.000 dollari per tenerli in carcere ogni anno, ma quei soldi si potrebbero usare in mille altri modi.
La mia famiglia, che è Afroamericana e Nativa Americana, ha a che fare con percentuali notevoli di detenzione e così io ed un’altra donna con la quale lavoro ci stiamo appassionando alla questione del reinserimento e stiamo lavorando per trarre qualcosa di buono da tutte queste persone che rientreranno nella nostra comunità, attraverso l’idea di sostenibilità e progettazione ecologica.
Affrontiamo fenomeni come il cambiamento climatico, la giustizia sociale, ambientale e facciamo confluire tutto insieme. A San Quentin, quest’altra donna, Angela, e io, portiamo avanti un programma chiamato “The Green Life”. Abbiamo pensato di avviare una discussione sulla gente che esce di prigione e si reinserisce nelle nostre comunità. Possiamo abbassare il numero di quelli che tornano in prigione ed educarli e sostenerli affinché prendano in mano la propria vita in termini ecologici? Ecco perché lo chiamiamo il Percorso della Resilienza, perché c’è questa idea della resilienza come di un sentiero che prendi rientrando nella società e accettandone i sistemi vigenti, tra cui quelli responsabili della tua detenzione, e altri che sono sistemi naturali, e c’è l’idea di come possiamo allineare le lezioni di entrambi.
Tanti uomini e donne coi quali lavoriamo, quando tornano a casa hanno bisogno di tutto. Magari sono stati via per 20 anni, quindi sono alle prime armi con la tecnologia e gli strumenti di comunicazione, e tornano nel mondo del lavoro. Così abbiamo pensato che questa fosse un’ottima occasione anche per mettere in evidenza e insegnar loro il design di permacultura e l’imprenditorialità sociale. Li aiutiamo a creare un piano di reinserimento in cui vedano la possibilità di essere vicini agli altri e al pianeta senza rinunciare al guadagno anziché limitarsi a incollare i pezzi di una vita dopo l’esperienza traumatica del carcere.
Come si articola il programma?
Si tratta di un percorso di quattro mesi. E’ un progetto pilota, è per uomini e donne che tornano ad Alameda County, la contea nella quale vivo. Ricevono il loro attestato di Permacultura. Seguono anche un percorso di imprenditorialità sociale. E, ancora più importante, vengono seguiti a livello personale e assistiti in maniera completa cosicché ognuno di loro può capire a che punto è arrivato in questo viaggio di rientro nella comunità. Queste persone sono anche collegate a una rete di società sia non-profit che for-profit che si impegnano a favorirne il successo.

Inoltre si riuniscono per parlare veramente di ogni cosa: traumi, relazioni fino a ciò che ora è sulla bocca di tutti, la brutalità della polizia e su come restare al sicuro. Stiamo cercando di ricalcare il modello dell’eco-villaggio. Lo chiamo il “benvenuto alla Mandela”, perché quando Mandela uscì di prigione tutti erano emozionati e speravano che vincesse e gli offrivano ogni genere di sostegno e di risorse. Perciò cerchiamo di creare un Benvenuto alla Mandela per tutti questi uomini e donne che ritornano.

Dopo 4 mesi di tutta questa formazione, ciò che ci proponiamo di fare non è necessariamente impegnare gli assistiti in lavori a tempo pieno, ma collocarli come apprendisti o stagisti a livello locale sia in società green sia in organizzazioni impegnate socialmente e nell’ambiente, perché possano contribuire con le abilità acquisite e applicarle per creare un percorso che sia veramente radicato nella loro etica e nei loro valori.
Lo chiami “ un sentiero olistico verso il successo”. Come viene recepito dalle persone che lo percorrono? Come funziona? E’ qualcosa che scelgono di fare o che devono fare?
Un gruppo è di sole 15 persone. Ognuno deve chiedere di farlo, è così che funziona. Vieni osservato e mostri di impegnarti per arrivare in fondo nel giro di 4 0 5 mesi. Vai al corso di Permacultura. Ricevi il tuo attestato di design in Permacultura. Incontri altre persone, e si inizia l’intera esperienza attraverso ciò che chiamiamo riti di passaggio. Eseguiamo una cerimonia nel bosco di sequoie dove conduciamo i nostri sostenitori – come le famiglie dei detenuti – che vogliono veramente vederli riuscire. Rappresenta un rito di passaggio. Scrivono qualcosa che hanno fatto e poi lo bruciano, fanno la cerimonia, ci sono le percussioni, ed è un vero e proprio reinserimento. Amano questa esperienza, perché è un modo per ricominciare.

Molti di loro sono visibilmente emozionati all’idea del Certificato di Design in Permacultura perché è una abilità tangibile che possono iniziare a usare direttamente. Alcuni hanno avuto esperienza di pratica agricola, lavorando nel giardino della propria nonna, come giardiniere o facendolo in carcere. Ciò che cerchiamo di fare è dare a questo aspetto più rilevanza e aiutarli a capire dove siamo siamo arrivati dal punto di vista del pianeta e della sostenibilità e nello stesso tempo a renderlo importante in relazione alla nostra comunità.
Queste persone amano imparare il design nella natura, ma anche il design della loro stessa vita, che possono trasformare. Che relazione c’è fra la loro salute e la salute del pianeta? Il successo più grande è stato finora fare formazione in permacultura e aiutarli a vedere da una nuova prospettiva ciò che possono fare della loro vita.
Quali cambiamenti hai visto nelle persone che hanno seguito il programma?
Una donna che ha seguito il programma all’inizio diceva: “Vado a scuola per il lavoro” e non si curava della questione ambientale. Non le importava. Dopo il primo giorno di Permacultura, e dopo le prime esperienze, disse: “Non sapevo cosa stesse succedendo e come l’ambiente influenzi me, la mia comunità, la mia vita e quanto è importante, e che io posso agire davvero, fare qualcosa di importante”. Avvengono dei grossi cambiamenti, quello spostamento della prospettiva che secondo me tutti provano, quando cominciano a imparare la Permacultura e la Transizione.
Abbiamo anche altri partecipanti che capiscono – Caspita, qualsiasi lavoro farò, posso usare l’aspetto etico, cura delle persone e della terra e condivisione delle risorse. Un sacco di partecipanti dicono: “Ora ho la sensazione di servire la mia comunità, non che qualcuno mi osservi perché sono appena uscito e faccio paura”. Ora la gente guarda a questi uomini e donne e dice:”Posso vederli come leader e come risorse per migliorare la nostra comunità”. E’ stato veramente grande sentirglielo dire. E ci danno riscontri su come migliorare il programma! Così migliora anche per i partecipanti.

L’imprenditorialità sociale è una delle parti fondamentali della formazione. Perché hai pensato di doverla includere?
Mi considero una sorta di imprenditore sociale. Oggigiorno è una parola di moda. Qualcuno mi ha chiesto l’altro giorno: “Che cos’è un imprenditore sociale?” Io penso sia l’opportunità di fare quella che noi chiamiamo la rendicontazione integrata delle dimensione sociale, economica ed ambientale: gente, pianeta, profitto – capire di avere una vita guidata da una missione, che il tuo lavoro può essere animato da una missione. Volevamo offrire questa visione a questi uomini e donne che rientrano nella nostra comunità, così non diranno: “Vado a fare un lavoro qualsiasi”, ma cercheranno cercano di compiere la loro missione nella vita.Nessuno può rispecchiarsi in una cosa qualsiasi, ma solo in ciò di cui è veramente appassionato.
La domanda è : c’è qualcosa nella loro comunità in cui possono essere innovativi e creativi e progettare una soluzione davvero necessaria? Abbiamo lavorato con il Centro Sostenibile di Economia Legale, una cooperativa locale di avvocati della zona. Fanno molta formazione al livello locale e fanno nascere cooperative. Fanno inoltre incontrare imprenditori sociali provenienti da ambienti diversi, come Back to the Roots. Hanno usato fondi di caffè per coltivare funghi. Hanno ora delle piccole colture idroponiche che si trovano in negozi in tutti gli Stati Uniti. Sono stati due studenti dell’università a vedere questa opportunità di eliminare i rifiuti e loro li hanno aiutati a sviluppare l’idea. Per i nostri partecipanti è importante imparare dal loro vissuto, vedere come progettano e che sia possibile creare qualcosa, che tu possa essere un imprenditore con un impatto sulla tua comunità. Lo scorso anno Back to the Roots è cresciuta di $11milioni. Impiegano persone del posto e sono impegnati nelle pratiche sociali ed ambientali. Quindi per noi, includere il filtro dell’imprenditorialità sociale lo rende più olistico. Il passo successivo è domandarsi: “Che ruolo svolgo nel creare un’impresa animata da una missione?” Oppure : “Come mettere questo tipo di etica in qualsiasi lavoro potrei fare?”
Come giudichi il livello di consapevolezza su questioni come razza e cultura all’interno della Permacultura e dei movimenti di Transizione? Sta migliorando? Peggorando?
Direi di aver fatto un bel po’ di lavoro, gettato ponti, coinvolto diverse comunità nell’area della sostenibilità. E’ un campo del quale sono molto appassionata e al quale lavoro da 20 anni. Penso che nella Permacultura e nella Transizione ci siano tante sfaccettature. Nella mia mente non c’è un solo movimento di Permacultura. La Permacultura è una disciplina che si mostra in tanti modi diversi. Ci sono dei design che vedi in California, nel Centro Ovest e nel Sud, i principi poggiano sui luoghi di origine.
Se frequenti un corso per la certificazione in Permacultura nel Nord California e poi vai a Malawi, i partecipanti sono molto diversi. Proprio come se andassi ad un corso di Permacultura dove si cerca di mettere la gente insieme per creare opportunità, come ciò che facciamo qui. A Oakland, il corso di Permacultura sarà diverso da quello oltre il ponte di a San Francisco. Permacultura e Transizione sono il microcosmo di un macrocosmo.
Stiamo ancora immersi nell’ingiustizia sociale di un sistema progettato per creare e alimentare la disparità razziale Quindi questi movimenti rispecchiano tutto ciò, a meno che tu non stia usando effettivamente i principi di Permacultura per compiere una trasformazione. Un sacco di gente parla di “diversità come legge naturale”, e che “sistemi più resilienti sono differenti”. Bene, noi abbiamo effettivamente distrutto un sacco di sistemi diversi, abbiamo avviato la monocoltura e progettato sistemi di irrigazione che non considerano come l’acqua debba veramente scorrere. E’ la stessa cosa con un insieme di persone.

Mettiamo la gente dentro dei silos e creiamo comunità dove vivono certe razze e culture, classificate come povere o ricche. Se non progettiamo attivamente occasioni per fare incontrare la gente e sanare e trasformare le relazioni, non succede molto spesso.
Come trattiamo l’ineguaglianza razziale nella nostra società, il fatto che la razza non esiste effettivamente, ma esistono questi sistemi che incrementano le disparità? Se non consideri questi aspetti non puoi conseguire un attestato di Permacultura e non puoi parlare di persone e dinamiche sociali e aspettarti che la gente vada ad applicare i principi se non in progetti agricoli. Voi di Totnes [la prima città in Transizione NdR] questo l’avete ben compreso, quando avete visto che la Transizione è soprattutto una questione di rapporti tra le persone e di come si usano e intendono le risorse.
E’ ancora tutto molto frammentario ma la gente vuole sapere cosa fare. Abbiamo dato il via alla Rete di Permacultura di Colore e negli ultimi due mesi abbiamo assegnato 12 borse di studio lavorando assieme a organizzazioni locali e centri di formazione per avere più persone di colore formate e coinvolte nei laboratori. Sto scrivendo ora delle lettere e chiedendo: “ Salve, vorrebbe finanziare tre borse di studio sulla diversità?”. La gente dà una certa somma e ti dice “grandioso”. C’è un sacco di lavoro da fare, però si tratta di costruire relazioni, riconoscere il passato, andare avanti, e progettare modi migliori per interagire tra culture e gruppi diversi.
Ho citato all’inizio che il tema del mese sarebbe stato “meno è più”. L’impressione che si ha dai mezzi di comunicazione è che all’interno di una certa cultura Afro Americana, come la musica, i desideri abbiano una motivazione molto materialista. Ci si immagina che chi esce di prigione voglia prendere quella strada. Come fare convergere i principi di Permacultura su condivisione equa, sul vivere con meno, sulla semplicità e una diversa concezione dell’abbondanza con chi potrebbe essere in prigione per ambizioni di proprietà, ricchezza e cose di questo genere?
La prima cosa che voglio dire e che questo non è in nessun modo parte della cultura Americana di colore. Accumulare più roba è parte del disegno globale.
Quindi, nuovamente, l’America di colore è un microcosmo di motivi che esistono in parte dentro società più grandi. Discuto molto con studenti di università tradizionalmente di colore, sulla nostra eredità Afro-americana.
In questa comunità cerchiamo di preservare la nostra identità in un ottica di condivisione, prediligendo coloro che hanno delle competenze, in modo da non disperdere le risorse economiche. Qui c’è una grande tradizione di sharing economy. E’ nei desideri di ogni generazione. Non solo i vecchi. Le persone che si preoccupano delle nostre comunità dicono: “Ok, come la risolviamo?” E’ un sistema in cui siamo tutti coinvolti.
Non sono mai stata in carcere, quindi riporto ciò che ho visto e sentito, ma lì sei confinato in piccoli spazi. Non hai molta roba. Vivi con il minimo, per forza. Quindi diventi molto creativo e aguzzi l’attenzione. Da ciò che ho visto, lì imparano a preservare le loro poche risorse. Il cibo che comprano non è molto sano, così bisogna mostrare loro come assumere la frutta necessaria o cibi sani.
Quando ero a San Quentin, molti degli uomini coi quali lavoravo seguivano tutti questi laboratori su come migliorare la loro vita. Lavoravo con persone che si trovavano sul loro percorso di rieducazione, sapevano che ciò che facevano era sbagliato e provavano tutti a migliorare la loro vita. Quindi “Meno è meglio” l’avevano capito! Tutti dicevano: “Voglio una vita florida, ma quando uscirò non necessariamente vorrò la stessa vita che facevo prima”.
La detenzione non ti impedisce di riflettere su queste cose, allo stesso modo in cui ci rifletterei io o ci rifletteresti tu. Devi lavorarci e dare importanza alla cosa. Gli uomini e le donne che ora sono fuori e seguono i nostri progetti, una volta che capiscono cosa succede, dicono cose come: “Caspita, quindi si può usare il mais per fare dei bicchieri?” Vogliono ancora cose e abiti carini, ma come tutti noi in questo movimento, vogliono che vengano da un processo più sostenibile.
Quindi non è stato per niente difficile parlarne, così come costruire qualcosa sulla loro esperienza in carcere, e sull’esperienza delle loro culture. Molte di queste persone sono Filippini o Nativi Americani. Parliamo delle loro nonne o della loro eredità culturale, e loro capiscono, è da li che proveniamo e lo reclamiamo come nostro.
La domanda “ la Transizione è politica?” è sempre presente. Quanto è politica la Transizione, lo è abbastanza? Ha più successo perché non è esplicitamente politica? Nella situazione attuale, con la sparatoria di Micheal Brown e Eric Garner e tutto quello che succede, la Permacultura, la Transizione, nel contesto di tutte le proteste e le dimostrazioni negli Stati Uniti, le vedi come qualcosa di parallelo? Hanno un ruolo in questo? Per te, come si accostano queste cose?
Secondo me, la cosa più sostenibile che una persona può fare è continuare a vivere! Stare in vita e prosperare e creare e sostenere sistemi che aiutino ad affermare la propria vita. Le azioni che scaturivano dalle morti di Michael ed Eric non erano affermazioni di vita. Quindi questo è sulla Permacultura e sulla Transizione. Siamo l’ambiente. Uomini di colore, e non solo loro, tutti.
Le persone sono l’ambiente, noi siamo il nostro sistema ecologico integrato in sistemi più grandi. Non è una fesseria per me averne dovuto discutere nuovamente perché è tutto frutto di un progetto. Viviamo in una società del controllo e l’idea di dare un valore alla proprietà o altre cose di un certo tipo è frutto di un progetto. Molte persone non sono sorprese. Si sono rattristate, veramente rattristate e disgustate, ma se guardi a come il sistema di controllo è stato disegnato e chi ne ha tratto vantaggio, e come sono visti i neri e chiunque abbia la pelle scura, ti rendi conto che tutta la gente di colore è temuta.

Se potessimo progettare le nostre comunità in modo che tengano in considerazione le ingiustizie, le vite che vengono strappate troppo presto… questo deve deve essere parte della Transizione, deve essere parte di un progetto di Permacultura. Parlo con molti designer di Permacultura che dicono: “Non sappiamo niente di razzismo o della brutalità della polizia”. Ma questo non significa che devi ignorarlo o che non esista!
Sono stata con persone che dicevano: “Parliamo della diversità delle piante, io non vedo razza o colore”. Ed io dicevo “Ma tu devi! Tu vedi la diversità nelle piante! Dov’è il problema nel dire che vedi diversità anche nelle razze, diversità nelle persone, e le possibilità di beneficio, se le metti assieme?” Io dico che che la razza non esiste ma la diversità culturale sì!
Ascolta il podcast dell’intervista
Traduzione di Rita Maleddu
Fonte: https://www.transitionnetwork.org/blogs/rob-hopkins/2014-12/pandora-thomas-responding-prison-industrial-complex-permaculture-and-resil