La difesa del giardino

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la difesa del giardino

Ho sempre sospettato, un po’ stupidamente, sia del sostantivo “giardino” che della sua manifestazione concreta. Semplicemente perché non credo, come il significato etimologico indica1, che sia (eticamente) ammissibile separare una porzione di natura dalla natura.

Non condividi, lo so: forse la bellezza di un giardino sta nei suoi contorni, nella vanità di controllare ciò che non possiede ordine, nel suo presentarsi compiuto, scelto, esclusivo. Chissà: le mie ragioni sono infantili.

Con il tempo, ricevendo da donne e uomini nient’altro che squallore, ho cominciato a considerare quella porzione di natura non più una separazione, bensì un rifugio nel quale difendere me e – anche se in piccolo – la natura stessa, o quello che di lei rimane; dichiarando implicitamente che nulla, fuori il giardino, è sicuro.

Reputo assurdo, e addirittura quasi un furto, cingere un luogo che non è mio. Osservando le reti metalliche, su cui è aggrappata la fitta edera che oscura il mondo esterno, non posso affermare che sia piacevole: tale schermatura è un fallimento.

Mio malgrado, ho dovuto accogliere sia la rassegnazione di non poter contribuire al bene del pianeta2, sia il biologico mistero di esercitare – finché vi sarà occasione – il mio ruolo di essere vivente. E magari in difesa di altri esseri viventi: dacché in questa bizzarra cosa che chiamiamo vita sono precipitato; pur senza gioia, lo ammetto, e senza idiozia, spero.

Oltre a quanto detto, e cioè che non è corretto togliere alla natura quello che lei ha creato come unità, nondimeno di trovarmi nelle condizioni di farlo, ho inventato una sorta di accordo, un accordo banale, che mi aiuta a non sentirmi un “ladro” disinteressato. Ed è qui che desideravo arrivare, altrimenti questo testo sarebbe stato privo di messaggio (simile alla vita?).

L’accordo è concentrato da brevi frasi, che espongo immediatamente:

– so di non avere nessun diritto di isolarmi;
– lo faccio per difesa e mi impegno per difendere ciò che ho isolato;
– difendendomi espando l’isolamento: all’immaginazione, ovviamente.

Avevo preannunciato che si trattava di una banalità; adesso sarà palese. Ho sviluppato la convinzione, dibattuta da autori più interessanti di me (che sostengo3), secondo cui il giardino è sì un luogo cinto, il ritaglio di una natura dalla natura, ma anche – paradossalmente – un “modo” più equilibrato, più profondo di vivere la Terra.

Soprattutto sono due i motivi che reggono mio accordo, intrecciati da una domanda: il giardino (lo sanno bene i giardinieri) invita, anzi, spinge all’umiltà, a riconoscere i limiti, ad accettare la fragilità, formulando le nostre corrette interazioni con la natura, pregandoci di non aggiungere altro che quest’ultima non abbia aggiunto attraverso gli anni, i secoli, i millenni di evoluzione; il giardino, da porzione di emozioni, proprio in virtù di esse, sollecita, adegua e incrementa la genuinità della nostra “interiorità”4 . Ecco la domanda: e se la natura, nascondendomi in lei, si svelasse?, e se raggiungerla fosse esattamente nascondersi? Si tratta soltanto di ipotesi, sciupate da un’esitazione; provo a spiegare esteticamente.

Amandoli, i giardini, li ho ampiamente frequentati, creati (nella mia fantasia). Ne visitai uno5, quand’ero adolescente, che oggi rappresenta il luogo nel quale abbozzai la mia sgraziata sensibilità naturalistica. Ci andai gli ultimi giorni di marzo: il sole illuminava questo cuore della Terra facendolo vibrare di un verde bruno; gli agrumi fioriti profumavano l’aria attirando le api; i laghetti specchiavano le nuvole, permettendo alle sculture in marmo di volteggiare in cielo; tutto pareva sospeso ampliando l’intensità; non ebbi la forza di pronunciare una parola; in silenzio confessai la mia fedeltà al giardino di fronte a un ninfeo che emanava una frescura umida. Se con qualche strano incantesimo avessi potuto fondermi nel giardino, certamente sarei ancora lì, da solo, sereno. A fiorire in primavera, a sperdermi in autunno.

Ebbene, entrare con l’immaginazione nell’isolamento fisico di un giardino, allontanandomi dal mondo, e assumendo per metafora la sua difesa, dona un’identità differente a quella volontà istintuale di provare un po’ di felicità, felicità che a me pare più simile a un’illusione costantemente in frantumi, piuttosto che la condizione primaria per sentirsi in salute.

La natura ha segreti nascosti6. E nascondendomi il lei, il giardino mi difende. In un segreto.

1 Dal germanico garten: recinto.

2 Non è bello da affermare, lo ammetto. Ma trovo ancor più disonesto affermare il contrario.

3 Mi riferisco ai testi di sette autori. Annoto qui i nomi, a mo’ di bibliografia: Rosario Assunto, Marco Martella, Raffaele Milani, Carlo Tosco, Massimo Venturi Ferriolo, Diane Relf, Lidia Zitara.

4 Il vocabolo “interiorità” ha qui la stessa accezione utilizzata da Clara nell’omonimo dialogo di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling. Cfr. F.WJ. Schelling, Clara, Zandonai, p. 39. La mia convinzione è che le “emozioni del giardino” possano avvicinarci meta-cognitivamente a quelle competenze trattate da Peter Salovey e John D. Mayer nella “Emotional Intelligence”.

5 Ho preferito omettere il nome, anche se alcuni indizi li ho lasciati.

6 Frase che copio da Blaise Pascal (nell’originale francese: «Les secrets de la nature sont cachés»), la quale è strettamente collegata al frammento di Eraclito (fr. 116 = DK, 22 B 123): «La Natura ama nascondersi». Per un approfondimento su questo tema rinvio a Pierre Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, Einaudi.