A cura di Deborah Rim Moiso e Giovanni Santandrea, Transition Italia
Looby McNamara non è famosa al grande pubblico italiano quanto meriterebbe perché, ad oggi, i suoi libri non sono ancora stati tradotti nella nostra lingua. Ma lei è una delle figure di riferimento del movimento internazionale della permacultura. Vive con il compagno e le due figlie in una piccola fattoria di circa 4 ettari ad Applewood, nell’Inghilterra centrale, circa 100 km a nord di Bristol. La fattoria è anche il luogo dove Looby tiene corsi di permacultura, in particolare dedica molte energie e attenzioni ai processi sociali ed umani. Iniziamo l’intervista con Looby via Skype.
Looby ci risponde dalla sua fattoria nel Regno Unito. Indossa un bel maglione colorato, dietro di lei si intravvedono le travi in legno del soffitto, … è una bella giornata di sole. Ci accordiamo per chiacchierare un’oretta, dopodiché lei non vede l’ora di uscire per andare a preparare gli orti alla primavera in arrivo (è l’inizio di Marzo). Abbiamo conosciuto Looby nell’ambito dell’organizzazione del corso sul “People-Centered Design” a settembre 2016 in occasione dell’EUPC, la Convergenza Europea di Permacultura tenutasi a Bolsena. E cominciamo proprio da qui…
Conoscevi già il movimento italiano della permacultura? Che impressione hai avuto di quello che si sta sperimentando in Italia?
A Bolsena sono stata molto bene, è stato divertente, come sai c’è stata una volontà di mescolare molto gli eventi della Convergenza con la vita quotidiana della comunità di abitanti. Fare la convergenza in una cittadina è stata un’idea coraggiosa e molto particolare… Ci ha permesso di esplorare direttamente, in modo molto pratico e organico, il margine tra il movimento di permacultura e le persone che abitano Bolsena o i turisti che la visitano. Il movimento italiano ha mostrato coraggio e visione in questo. Invece di essere un evento separato dalla vita quotidiana, in cui si crea un po’ una bolla, è stato un momento integrato nella vita bolsenese. Questo mi è piaciuto moltissimo, e fa parte del mio lavoro con la permacultura, l’aspirazione a far sì che sia un modo di pensare rilevante per tutti e tutte, non solo qualcosa che alcune persone un po’ strane fanno nel tempo libero. A Bolsena abbiamo toccato con mano la possibilità che diventi normale fare un festival di permacultura in paese, come si fa la festa d’estate. Penso che nei prossimi anni possa davvero diventare normale. E’ stato molto bello, vedere la permacultura che esce dalla nicchia, far parte della vita della comunità. E’ stato anche un evento molto partecipato, con degli ottimi seminari. Ed eravamo subito dopo lo shock del voto per la Brexit, per me è stato confortante ritrovarmi nell’ambiente della permacultura europea, sentire un respiro internazionale.
Bene, entriamo più direttamente nel tuo rapporto con la permacultura. Tu ti occupi di portare avanti una permacultura orientata alla cura delle persone, mentre è ancora comune associare la permacultura principalmente a progetti di cura della Terra o di aziende agricole … hai visto dei cambiamenti in questo senso? Cosa può aiutare a diffondere una maggiore attenzione verso la cura delle persone nel movimento della permacultura?
Ho visto grandissimi cambiamenti negli ultimi cinque anni! Cinque anni fa usciva “People and Permaculture”, il libro in cui introduco la rete di progettazione “design web” con un focus specifico su progetti personali e sociali. Non intendo dire che sia stato l’unico fattore, ma ha contribuito a creare nuove porte d’ingresso per aprire un dialogo tra le prime due etiche della permacultura: cura della Terra e cura delle persone. Cinque anni fa, il campo di quella che io chiamo “people permaculture”, che unisce permacultura sociale e permacultura orientata sulla persona, era come se non esistesse. Per capirne l’importanza era necessario addentrarsi molto nel mondo della permacultura, perché il tema esisteva ma era invisibile. Ora “permacultura sociale” è un tema di moda, e le persone arrivano alla permacultura per strade diverse, non solo partendo dall’agricoltura, come accadeva fino a qualche anno fa.
Penso che ciò che aiuta di più a diffondere la consapevolezza dell’importanza della cura delle persone in permacultura sia semplicemente la realizzazione che tutti noi siamo coinvolti nel prenderci cura di persone, di noi stessi, di altri. E che quindi c’è un sacco di progettazione, di design, di riflessione e di lavoro da fare. La permacultura diffonde e sviluppa tantissimi strumenti meravigliosi per riparare e rigenerare la Terra, gli ecosistemi… ma non succede al ritmo che vorremmo, perché? Spesso perché ci sono difficoltà nel lavoro con le persone: quindi è qui che dovremmo portare la nostra attenzione e fare della buona progettazione.
Penso che nei prossimi cinque anni vedremo una grande diffusione delle idee e delle visioni della permacultura e della transizione, credo che diventeranno linguaggio comune, che l’impatto aumenterà notevolmente.
Ci puoi fare qualche esempio, cosa vuoi dire quando parli di progettare in permacultura “per le persone”? Come lo fai e con chi?
Come vi dicevo, è un po’ come rendere visibile l’invisibile: tutti progettiamo per le nostre vite e le vite di chi ci sta accanto, ma in permacultura cerchiamo di farlo con più consapevolezza. Io propongo il “design web”, una rete di punti da toccare per una progettazione completa, circolare, ed etica. Anche i gruppi di Transizione fanno progettazione in campo sociale. Più rendiamo visibile questo lavoro, più cresce l’interesse. Io lavoro con un gruppo di professionisti, ci chiamiamo Thriving Ways, sono persone che si sono formate con me: in Maggio o Giugno intendiamo pubblicare una serie di progetti di “people permaculture” che stiamo sviluppando, per rendere evidente come queste metodologie possano essere usate da chiunque per progettare per noi stessi, non è necessario essere appassionati di permacultura, far parte di un’iniziativa di Transizione o avere un terreno. Hai bisogno di prenderti cura di te stessa? Hai bisogno di prenderti cura di un’altra persona? Allora questi strumenti possono esserti utili.

Ti faccio un esempio: ho utilizzato la progettazione per gestire un problema di salute che ho al braccio (il progetto completo si trova qui: http://loobymacnamara.com/regenerative-arm-movement-design/). Il titolo già dice molto, invece di parlare di una malattia, parlo di progettare la “rigenerazione” dei movimenti delle mie braccia. Questo crea un quadro completamente diverso. Ho lavorato sull’osservazione di me stessa, dei modelli di comportamento e movimento che sono più o meno utili, più o meno sani e funzionali. E ho lavorato sulla visione: come vorrei che fossero i miei movimenti? Come influisce questo sulla scansione delle attività delle mie giornate? Che esercizi posso fare, che scelte? Uno dei principi di permacultura che ho utilizzato è “tutto si può risolvere”… se ci mettiamo la nostra attenzione e la nostra cura. In ogni cosa possiamo ottenere dei cambiamenti, piccoli o grandi, niente è immutabile.
E torniamo a parlare del tuo libro forse più di successo, “People & Permaculture”. A nostro avviso è un testo imprescindibile non solo in ambito di progettazione in Permacultura, ma anche per i gruppi di Transizione. Quali sono le idee chiave che ritieni più utili da utilizzare nella progettazione per creare comunità locali resilienti?

L’idea chiave è piuttosto semplice: occorre progettare per la transizione. Invece di entrarci alla cieca, includere dall’inizio progettazione e consapevolezza. Negli incontri di gruppo riflettete sulla vostra visione, sulle risorse che avete, sui limiti, sulle sfide, raccogliete tante idee e poi tornate a riflettere sui bisogni della vostra comunità. Quali sono i bisogni reali? Quanti modi potete ideare per rispondere a quei bisogni? Prima di prendere una decisione, create un piano d’azione. Molti progetti di Transizione cominciano con un gruppetto di persone motivate, che iniziano subito a generare idee e fare, fare, fare, senza progettazione, senza guardare avanti. Come manterrete il sistema nel tempo? Come costruirete collegamenti, come comunicherete dentro e fuori il gruppo?
E se il progetto è già partito, potete sempre fermarvi a controllare come sta andando. La forma mentis della progettazione aiuta a capire in che direzione sta andando il gruppo e dirigere la rotta. Anna Locke, una mia amica progettista, dice che fermarsi a riflettere usando la progettazione è come prendere la propria iniziativa e metterla in lavatrice: esce più pulita, rinfrescata per così dire, non necessariamente diversa, ma più coerente. E’ questo che suggerisco di fare ai gruppi di Transizione.
Quale è la tua visione più a lungo periodo?
Il lavoro che sto facendo ora è sul tema dell’ “emergenza”, di quello che emerge dal cambiamento culturale. Come creiamo collegamenti che possano trasformare la nostra cultura, integrando il pensiero sistemico, la permacultura, la transizione, per creare nuove visioni, sfidare vecchi modelli, vecchie fobie e dirigerci laddove vogliamo andare? Possiamo cercare momenti di svolta, i cosiddetti “tipping points”, momenti di transizione, per costruire una cultura più orientata alla cura delle persone.
Il primo principio dell’emergenza culturale è prenderci cura della nostra cultura personale. La cultura non è una massa informe in cui ci muoviamo, non è del tutto fuori di noi, fuori dal nostro controllo o dalla nostra influenza. Abbiamo una cultura personale, dei valori, modi di pensare, priorità. Se ce ne prendiamo cura, se portiamo consapevolezza a ciò che accade dentro di noi, possiamo influenzare la cultura, o le culture, di cui facciamo parte. Che a sua volta ci influenzano. Le culture sono come bambole russe, una dentro l’altra, e noi abbiamo un’influenza, abbiamo la capacità di cambiarle. Cominciate a progettare osservando voi stessi, voi stesse, portando l’attenzione sulla vostra cultura individuale.
Nel novembre scorso è uscito il tuo ultimo libro “Strands of Infinity” (Fili di infinito). Ha come sottotitolo “La poesia per riconnettersi”. Vi sono presenti poesie scritte nell’arco degli ultimi 5 anni. Nei versi delle poesie esplori tematiche quali la gratitudine, il dolore e il rinnovamento interiore. E’ chiaro il legame con il pensiero e i percorsi formativi della psicoterapeuta Joanna Macy ben nota anche a chi è coinvolto, come noi, nel movimento di Transizione. Vuoi raccontare ai lettori di Vivere Sostenibile qualcosa di più su questo lavoro? Come è nata l’idea? Che cosa ti ha portato all’espressione poetica, così differente dallo stile saggistico degli altri libri? Da dove hai tratto l’ispirazione? Hai voglia di parlarci del tuo personale rapporto con Joanna Macy?

Parlando di cultura personale, parliamo anche di arte, di creatività. Per me è successo così: quando ho cominciato a scrivere People and Permaculture, la scrittrice/saggista e la scrittrice/poetessa in me si sono risvegliate allo stesso tempo. Sono cinque anni che, in un certo senso, questo libro si scrive da solo. Mi arrivano delle poesie, a volte già formate, a volte impiegando più tempo a maturare. Quando ho cominciato a metterle in forma scritta stavo facendo una formazione sull’ecologia profonda e il lavoro che riconnette di Joanna Macy. Questo lavoro segue una spirale: comincia dalla gratitudine, onora il dolore per il mondo, guarda con occhi nuovi, guarda avanti. Così anche nel libro le poesie si sono organizzate nello stesso ordine, in questo modo il libro è un flusso, si può leggere come un racconto, più che come una collezione di elementi separati gli uni dagli altri.
Qualche anno fa ho constatato che la poesia ha poteri terapeutici, è una medicina per la mente e per l’anima. Così ho pensato: se la poesia è medicina, che medicina voglio portare nel mondo? E per me è il modello del lavoro che riconnette la risposta. Un amico mi ha regalato questa similitudine: gli artisti funzionano come gli accumulatori dinamici di nutrienti in un ecosistema, come la famosa Consolida. Le loro radici affondano in profondità nel terreno, che in questo caso è la nostra cultura collettiva, e portano su i nutrienti più nascosti. La poesia scava in ciò che c’è sotto il quotidiano e porta alla luce i nutrienti culturali di cui abbiamo bisogno. Penso al mio libro come una collezione di possibili porte a cui i lettori e le lettrici possono accedere per trovare nutrimento, connessione, empowerment e un senso di appartenenza e di comunità con gli altri esseri umani. E’ il nostro bisogno più profondo, sentire una connessione tra esseri umani, sentire la nostra responsabilità collettiva e il nostro potere di fare la differenza. Quando siamo connessi con gli altri siamo connessi con il nostro potere, la nostra responsabilità, la nostra capacità di emergere e di sfidare, di trasformare, di cambiare.
A molti personaggi che abbiamo intervistato per Vivere Sostenibile abbiamo chiesto di parlarci della loro reazione all’affermazione di Holmgren di tre anni fa, secondo cui una trasformazione pacifica della società è ormai impossibile. Fece molto scalpore. Dal tuo personale punto di vista ci sono ancora motivi fondati per mantenere la speranza in cambiamenti globali tali da evitarci la catastrofe annunciata? E se sì, quali sono questi motivi che nonostante tutto possono ispirarci una visione positiva del futuro?
Io e Jon Young abbiamo scritto alcuni principi-guida dell’emergenza culturale: uno di questi è “sostenere la possibilità di ciò che è apparentemente impossibile”. Al momento una transizione pacifica potrebbe sembrare impossibile. Ma dobbiamo fare spazio a questa possibilità. Se diamo priorità alla progettazione, se ci sforziamo in questa direzione, potrebbe succedere. L’idea di “emergenza” di cui parliamo viene dal pensiero sistemico, in cui per emergenza si intendono i risultati inaspettati di una somma di elementi. E’ molto di più della sinergia, è un qualcosa di nuovo che emerge. Per fare un esempio semplice, se mescoliamo un po’ di ingredienti e li mettiamo in forno, otteniamo una torta: era prevedibile?
Ci sembra di sì, perché sappiamo per esperienza che funziona, ma se guardiamo uova, farina, zucchero, lievito, come facciamo ad immaginare una torta? E’ un processo emergente. Nell’emergenza culturale crediamo che combinando intelligenza collettiva, saggezza e diversità culturale, avremo risultati inaspettati e imprevedibili. Esistono dei punti di svolta nel cambiamento climatico, e così esistono anche punti di svolta che possono portare alla stabilità sociale e ad un mondo sano ed abbondante. Non sappiamo quali sono e non sappiamo che ingredienti sono necessari perché questo accada. Qual’è il lievito? Se pensi al lievito, rappresenta poco volume in una torta… ma trasforma l’intero processo. Non sappiamo quale elemento creerà una catalisi.
La peggior cosa che possiamo fare è perdere la speranza. Senza speranza, non funzionerà mai.
La miglior cosa che possiamo fare è fare del nostro meglio, aprirci a conversazioni coraggiose, spalancare l’immaginazione. Creare visioni del mondo che vogliamo, e mettere i nostri sforzi in questa direzione.
Ciò che mi dà speranza, che mi permette di rimanere forte e proattiva, è proprio questo senso di non sapere da quale direzione arriverà il cambiamento. Non sappiamo quale sarà l’ingrediente che porterà a punti di svolta positivi. Certamente la Transizione è una delle porte d’accesso, permette a sempre più persone di diventare proattive, di attivare la speranza: questa è la sua grande forza.
Grazie Looby del tempo che hai voluto dedicare ai lettori di Vivere Sostenibile…e quelli di Permacultura & Transizione.
L’articolo originale è stato pubblicato su Vivere Sostenibile – n. 39 maggio 2017