C’è un’idea che mi piace molto e ho preso in prestito da una conferenza di Rob Hopkins: quella di vivere come se il mondo che vogliamo fosse già qui.
Mi piace perché mi riporta alla mia responsabilità nel cambiare ciò che non posso accettare, ma soprattutto mi ricorda di non aspettare che qualcun altro lo faccia per me. Non abbiamo tempo di aspettare che “qualcuno” venga a risolvere i guai che collettivamente abbiamo combinato.
Ci sono tante dimensioni del vivere nel mondo che vogliamo. C’è sicuramente una dimensione pratica: per esempio, progettare, sperimentare e rendere stabili le strutture economiche e sociali che ci permettono di mangiare, abitare, spostarci, educare, curare la salute eccetera in un modo rigenerativo.
Alla radice di queste scelte pratiche, c’è una dimensione meno tangibile, ma che è altrettanto importante: il modo in cui pensiamo, comunichiamo e vediamo il mondo.
È da qui che hanno origine anche il nostro modo di comunicare e relazionarci con le altre persone, di prendere decisioni e affrontare le sfide collettive che abbiamo di fronte.
Per agire a questo livello, servono pazienza, voglia di andare a fondo, gli strumenti più adatti e altre persone che ci accompagnino in questo processo. Altrimenti è fin troppo facile ricadere nelle modalità o nel modo di pensare in cui siamo immersi fin dalla nascita, e cioè una visione del mondo estrattiva e basata sulla scarsità, sulla separazione, la competizione.
Accadono cose straordinarie quando riusciamo a vivere come se il nuovo mondo fosse già qui – e le numerose storie delle iniziative di transizione o permacultura lo dimostrano. Allo stesso tempo è importante affiancare queste storie ispiranti alla dimensione della “transizione interiore”, per imparare a essere sempre più ancorati nella visione del mondo che pensa in termini di reti, complessità, interconnessione.
Gli approcci che ci insegnano un modo di pensare e non semplicemente una ricetta, che tengono in conto la complessità del mondo e delle persone, sono di quanto più prezioso possiamo apprendere. In fondo, le idee che pensiamo e i valori in cui crediamo adesso influiscono sul futuro delle persone e della Terra.
Strumenti del genere sono ad esempio lo studio dei sistemi complessi, la permacultura, la transizione, la facilitazione.
La facilitazione è lo strumento che, in particolare, mi sta appassionando negli ultimi anni.
Credo sia una chiave importante perché e è un modo di vedere in maniera sistemica e di prendersi cura delle persone e delle relazioni. Nel mio modo di vedere, la facilitazione porta con sé un modo radicalmente diverso di vedere il mondo. Non solo: dà anche strumenti pratici e indica come metterlo in pratica nelle relazioni quotidiane.
Ad esempio: il nostro modo di comunicare viene da un modello competitivo, dove io vinco e tu perdi oppure cerca di esplorare sentimenti e bisogni in modo da trovare una terza via soddisfacente per entrambe le parti? Nel prendere le decisioni siamo in grado di ascoltare le diverse voci e raggiungere quindi soluzione sostenute da tutti? Riusciamo a creare spazi per l’intelligenza collettiva e la creatività? Quali strutture organizzative sono più adatte a situazioni complesse e flessibili?
Non si tratta quindi semplicemente di un set di tecniche per riunioni efficaci o ”dinamizzare” un incontro per renderlo più interessante. Se ci fosse solo questo aspetto, ricadremmo facilmente nel modo di pensare votato alla produzione e alla crescita senza limiti. La facilitazione si occupa al contrario di obiettivi, relazioni e processo (il cosa, il chi, il come), considerandoli di uguale importanza e cercando di tenerli in equilibrio.
Sottolineare che la facilitazione può essere uno strumento di cambiamento sociale mi sembra importante in un momento in cui comincia a diffondersi sempre di più e raggiungere mondi molto diversi tra loro. È un promemoria innanzitutto per me: ricorda di tenere presente le radici e il senso di questi strumenti e il loro potenziale .
Sto sperimentando la forza della facilitazione come strumento di cambiamento sociale grazie a un’esperienza in cui ho l’opportunità di confrontarmi con persone che per me sono dei modelli in questo.
Si tratta del corso annuale di facilitazione (corsofacilitazione.wordpress.com) basato sul curriculum IIFACe (http://www.facilitacion.org/) che è partito a Milano da gennaio.
Riaprirà ad aprile a Milano e in Toscana.
È una formazione che integra diversi strumenti e approcci di facilitazione con la visione sistemica e una grande attenzione alla cura delle relazioni, alla gestione della diversità nei gruppi e al cambiamento sociale che la facilitazione porta. Per quest’anno, il corso che offriamo è il livello base, ma si va decisamente a fondo. Si imparano molti strumenti, ma non è questo che fa la differenza: in fondo una tecnica si può imparare anche leggendo un manuale. Quello che difficilmente si impara sui libri è l’attitudine che ci sta dietro, è poter fare esperienza in prima persona di un altro modo di intendere le relazioni, insieme ad altre persone in un percorso di gruppo lungo un anno. Non solo imparare a “fare i facilitatori” ma anche ad “essere facilitatori”. Su questo sto capendo che ho ancora molto da imparare.
Questo per me sta facendo la differenza e credo mi stia portando un grande arricchimento, anche se sono ormai alcuni anni che mi occupo di facilitazione e ci lavoro. È per questo che mi sembra importante condividere questo percorso con chi si sente motivata/o a intraprendere questo tipo di cammino – e mettere un altro tassello per vivere come se il mondo che vogliamo fosse già qui.