Direi che la mia è una coazione a ripetere. Attivare paure del sistema che si difende e cerca di azzittirmi e pormi ai margini.
La mia storia narra di una persona allergica al già dato, all’ordine precostituito che non accetta spazi di partecipazione. Ho deciso di parlarne, non in un articolo scientifico, ma in un articolo che metta in fila e testimoni il mio personale punto di vista, magari fallace, anzi mi auguro fallace. Forse ho bisogno di digerire tutto ciò che mi sta accadendo, che faccio in modo che accada con la mia indomita personalità.

La mia carriera professionale è quella di un saltimbanco utopista
Da un sistema all’altro rintraccio segni e resistenze al cambiamento, di cui sono per necessità portatrice.
Iniziamo da un punto a caso, cercando di ricostruire la bizzarra carriera di saltimbanco.
Come ricercatrice sociale, cambio diversi dipartimenti universitari, e tra i motivi ne narro uno: dico “no” al mio tutor che voleva apporre il suo nome sui miei articoli scientifici, senza apportare un contributo e senza nemmeno accennare ad una qualche reciprocità nello scambio. A distanza di molti anni celebro una vittoria, mi è riconosciuta l’autorship di un articolo che mi è stato impropriamente sottratto, pubblicandolo senza il mio nome su una rivista internazionale. La sottrazione è avvenuta da parte di un altro prof, di un altro dipartimento. Una coincidenza, o un indicatore che ci informa su come funzionano le relazioni in alcuni sistemi?
Non è sempre così, per fortuna, incontro collaboratori prof. che mostrano rispetto e riconoscimento del mio lavoro, pertanto collaboro ancora con l’Università ma con un altro dipartimento ancora.
Come psicologa di comunità, lavoro sull’empowerment dei gruppi, con diversi comuni, e quando vedo che la politica intende la partecipazione una farsa, per incompetenza o malevolenza, offro la mia voce a testa alta. Ricordo un episodio in cui ho interrotto un sindaco durante una discussione dai toni aggressivi con un cittadino, proprio durante una riunione di inaugurazione del progetto di urbanistica partecipata.
Avevo addirittura osato pormi come mediatore, visto che nella mia competenza professionale questo era il mio ruolo, essendo coordinatore del progetto di urbanistica partecipata. E allora fui azzittita, perché il comandante era lui (l’assessore, ricordo, usò esattamente queste parole). La mia coerenza ed il mio intervento ottenne però l’avvicinamento di diversi cittadini, che sentirono in me una spinta autentica alla partecipazione e al lavoro collettivo sui temi della città.
Dopo che concludemmo il progetto, quel sindaco fu arrestato …ma per motivi diversi: questione di mazzette.
Nei progetti realizzati, ho ottenuto riconoscimenti dai gruppi locali, da dirigenti e amministratori più illuminati, ma la burocrazia e la mancanza paventata di fondi non hanno consentito finora di conseguire l’alta ambizione che come gruppo, io insieme ad urbanisti pionieri, ci eravamo posti, quella di sperimentare un vero e proprio laboratorio di partecipazione per ogni piano operativo coordinato e facilitato da chi ne aveva competenze.
Piccole fiammelle accese in varie città, con incontri in grosse plenarie partecipate, con brainstorming, musica di sottofondo, word cafè e grandi cerchi fatti nelle sale comunali.
Sì… riportare il mondo delle comunità in transizione, degli eco-village, della permacultura sociale, dei movimenti e dei gruppi che riscoprono la sacralità delle relazioni con sé, con gli altri e con la natura nell’arena politica. Riportare pezzi di questo mondo, riconnettere comunità e fomentare l’interesse per il bene comune.
Progetti di ricerca-azione, che prevedevano anche una parte molto dettagliata e sistematica di ricerca, che avvenivano sull’onda della mia energia, del mio entusiasmo e di pochi pionieri urbanisti che credevano come me nell’apporto dei cittadini alla visione tecnica della città, affrontando mille difficoltà nel sistema, non ultima quella materiale di finanziamento. Per alcuni progetti, di fatti, non sono stata ancora tutt’oggi retribuita.
E così che mentre lavoravo a cambiare il mondo, dovevo anche lavorare a sostenermi
Il mio lavoro “fisso” è stato dopo la conclusione di una borsa di studio di dottorato di ricerca (ero arrivata prima al concorso senza alcuna raccomandazione), fare il referente dell’area formazione in un centro dei servizi al volontariato. In quello stesso periodo, ero reduce di un concorso come psicologa clinica e psicoterapeuta. Dopo 4 anni di volontariato nel consultorio familiare, un anno nel Ser.T, ed un altro paio di anni nel dipartimento di salute mentale avevo provato la selezione concorsuale come psicologa dell’ambito territoriale per un contratto di tre anni per lo svolgimento del piano di zona sociale.
Risulto per la valutazione dei titoli prima su 600 persone, svolgo un orale ineccepibile, d’altra parte avevo fatto anche ricerca sui piani di zona, e quindi avevo osato sperare che tra 7 persone da assumere, almeno una senza raccomandazione l’avrebbero presa….
Invece il sistema esagera anche nelle sue tendenze all’omeostasi, è sfrontato e sa di passarla liscia
E così che resto stranita, non sono nella graduatoria, e mi vedo sorpassare da persone che erano al 400° posto per la valutazione dei titoli e che nei 10 minuti dell’orale avevano probabilmente dato prova della loro genialità, da sorpassare le graduatorie e arrivare ai primi posti. Nell’accesso agli atti, la dirigente, coordinatrice d’ambito, fa discorsi incoerenti, dicendomi che i titoli non contano, che avrei potuto avere anche soldi per frequentare scuole e dottorati, e poi aggiunge “Se il movimento cinque stelle salisse al governo magari non ci sarebbero più tante ingiustizie”, lasciando intendere che era solo una pedina della politica e che nulla avrebbe potuto fare.
Questa è la città in cui sono nata, stiamo parlando di un sindaco arrestato ed indagato più volte che ha venduto anche i posti di lavoro come psicologo a nipoti di camorristi. Disgustata da questo mondo, mi allontano.
Cambio città, inizio a lavorare nel Terzo Settore
Avevo finalmente trovato la mia comunità, dove lavorare nel rispetto dei principi etici di solidarietà, bene comune, partecipazione…insomma tutte parole, che io nel mio ruolo avrei fatto di tutto per incarnare ed in cui credo profondamente. Per quattro anni e mezzo ho provato ad incarnare le parole nella mia pratica lavorativa, ho introdotto strumenti nuovi, una modalità interattiva ed esperienziale nella formazione, una visione progettuale prospettica e sempre impiantata sulle risorse e punti di forza, un lavoro che voleva essere autentico sulle relazioni di cooperazione, integrando teorie di psicologia sociale e di comunità con l’esperienza concreta che vivevo.
Progetti di animazione territoriale, in cui le associazioni presentavano le loro idee ai coordinatori d’ambito territoriale, per iniziare una vera pianificazione sociale.
Gli ambiti che chiedevano al CSV (Centro di servizi al volontariato) un regolamento per la progettazione sociale, le associazioni che continuavano ad incontrarsi dopo i corsi di formazione, che si confrontavano con quelle di altri CSV in merito ad altri progetti, come quello di validazione delle competenze in cui avevano lavorato anche su come l’esperienza di volontariato aveva inciso sulle loro vite… dal punto di vista emotivo innanzitutto.
Questi sono solo alcuni esempi. Cosa è poi accaduto? Direttore e vicepresidente mi fanno sapere che sono “troppo innovativa”, che mi metto troppo in mostra, insomma sono scomoda.
Sono stata zittita durante un word cafè, che io dovevo facilitare, perché l’incontro non doveva realizzarsi. Per contrasti “politici”, o meglio di competizione e potere, non curanti della presenza di tante associazioni lì proprio su un bene confiscato alla camorra, che avrebbero avuto una occasione autentica di scambio e relazione.
L’incontro in cui mi mettono più volte a tacere, ordinandomi di non parlare è solo l’epilogo, un episodio emblematico che mostra tutta la fragilità di un sistema che per mantenersi così come è, non può tollerare che un pensiero divergente si esprima, che sia dato spazio a chi propone una alternativa, nemmeno per spiegare il metodo di lavoro, non può tollerare che il potere venga distribuito, ma si compiace degli ordini ai dipendenti, e della loro paura di essere licenziati.
Mi dicono che il mio lavoro non è quello di formare, la formazione doveva essere esternalizzata ed io come tutor non dovevo parlare durante gli incontri, per non mettere troppo in mostra le mie competenze. Avrei dovuto occuparmi di scartoffie ed amministrazione, non di gruppi, dell’empowerment delle associazioni.
Nel mio cammino di consapevolezza, la paura la affronto e decido di dare le mie dimissioni
Rinuncio ad un contratto a tempo indeterminato nell’incertezza totale di ciò che sarà. Ho lasciato lavoro e la città in cui ho investito le mie energie anche per formare gruppi locali di economia sociale, sostenere la politica attiva dei cittadini e la cultura cooperativa schiacciata dal peso della frammentazione dei gruppi, e dalla mentalità individualista che ha portato danni all’ambiente e ai beni comuni, e che è la vera base della proliferazione della camorra e della sua mentalità.
Una città in cui coordinatori d’ambito sono agli arresti, e anche un noto presidente di una organizzazione del terzo settore è stato arrestato. Altri indicatori di come il marcio sia insinuato in modo banale nella quotidianità.
A pensarci adesso, quante persone che ho conosciuto in questo mondo che sono state arrestate…quante che l’hanno ancora scampata!
Parto. Ricevo la solidarietà di diverse associazioni, ma non quanto basta per fare una ri-evoluzione. O forse a modo loro, la faranno. Lascio che se ne occupino loro, ho da pensare a me. Forse per la prima volta, davvero, nella mia vita. Vado fuori Italia, vivo altre esperienze formative, in giro tra una conferenza internazionale, centri di permacultura e cerchi di donne per l’empowerment, arrivano altre conoscenze, intuizioni e prospettive. Continua il mio percorso di consapevolezza e lavoro personale. A partire questa volta dal corpo e dall’arte.
Decido di insegnare
Un ragazzo in un progetto realizzato in una scuola con il teatro sociale mi disse “fare l’insegnante non è per tutti, è una vocazione”. Decido di sperimentarmi in questa avventura. Sono anche psicoterapeuta dell’adolescenza e stare in contatto con i giovani sicuramente mi farà bene al cuore.
Lavorare sul loro potenziale per realizzare l’utopia che prima o poi avrà luogo. Se ci crediamo davvero. In psicologia si parla di “profezie che si autoavverano”, di autoefficacia e fiducia. Ecco queste sono le componenti essenziali che non devono mancare all’inizio di ogni avventura. Visione fiduciosa, credere di avere le capacità per affrontare ogni nuova sfida, e credere che tutto ciò che credi condizionerà come una profezia anche l’ambiente che ti circonda.
Cambio di nuovo città, e questa volta anche regione: sono sola. Si ricomincia, non sono più giovanissima. Accetto una supplenza annuale. Devo essere una prof. di sostegno, che sostiene alunni in difficoltà ma che dovrebbe sostenere, come è nell’ottica della norma, tutta la classe e la didattica. Inizio un laboratorio di pittura, il mio alunno è sempre più felice dei suoi capolavori di arte informale, lavoriamo anche sul riciclo, avendo lui una predilezione per la raccolta differenziata.

Facciamo un progetto per recuperare alunni in dispersione scolastica che cercano nei giochi virtuali, così come riferiscono loro stessi, ciò che questa scuola non offre: divertimento, avventura, socializzazione (anche se a distanza) con altri ragazzi. Andiamo noi a casa per provare un aggancio.
Un alunno ritorna a scuola. Un caso di dispersione scolastica al momento scampato. Un possibile caso di Hikikomori al momento scongiurato. Nelle classi sperimento lezioni più interattive, con arte maieutica. Brainstorming, esperienze di contatto visivo per lavorare sulla comunicazione non verbale, lavoro sulla gestualità del corpo come nel teatro immagine di Boal, e naturalmente il cerchio.
Proviamo in una classe il cambio di una disposizione, formiamo un semicerchio. Ho lavorato più di 10 anni fa per tre anni in una scuola, dove sperimentavo metodi di didattica interattiva ed esperienziale, facendo sempre ricerca-azione ed ottenendo risultati efficaci sulla riduzione del bullismo e delle prepotenze. Lavoravo con consigli di classe, docenti, genitori e alunni. Anche allora con una visione sistemica. Ho lavorato fino a che la dirigente non è andata in pensione, e al suo posto è subentrato un uomo che non aveva alcun interesse per il lavoro relazionale che si svolgeva. Anche lì per un progetto regionale non sono stata ancora retribuita, e mai lo sarò.
Arriviamo all’esperienza più recente, sono convocata dalla dirigente scolastica. Mi dice che il mio metodo di insegnamento è sbagliato, che disturbo la lezione. Le rispondo che è normale che ci sia qualche docente e qualche alunno che faccia resistenza all’inizio di nuove esperienze, ma che crescere significa anche andare oltre la propria area di comfort, quindi ad esempio cambiare compagno di banco può essere una esperienza di socializzazione, e così anche il semicerchio in alcune attività può servire ad integrare gli stessi ragazzi che richiedono un sostegno.
Di fatti se alcuni ragazzi alla proposta del cerchio avevano esclamato di essere tornati all’asilo, nella forma naturale del cerchio, un ragazzo che seguo mi sbalordisce dicendo: “che bello, sembra un parlamento!”.
All’ordine di non disturbare del dirigente scolastico, chiedo chiaramente che mi sia messo per iscritto quale sia il metodo di insegnamento più corretto a suo avviso, e perché un docente di sostegno non è pari ad altri docenti, e se concorda la didattica con il docente d’aula, non può avere diritto di parlare e relazionarsi allo stesso modo con gli alunni (visto che per giunta deve essere anche presente a tutti i consigli di classe, scrutini etc.).
Una altra conferma di come funzionano i sistemi, in modo rigido ed omeostatico
Quanto è difficile inserire un cambiamento, se si è soli. Quanto è però essenziale. Dico alla preside: “Lo sa che un mese fa si è suicidato un ragazzo?”, risponde “mica nella sua classe”. Resto sbalordita, dovrei interessarmi della vita dei ragazzi solo della mia classe, e non si crede che la comunità scolastica sia una sola, che esista un benessere organizzativo, delle relazioni e che un suicidio di un ragazzo della scuola riguardi in qualche modo tutti. Mi intima di non fare la psicologa, le rispondo che nel mio modo di essere e nella mia didattica penso a promuovere un benessere delle relazioni e quindi salute, attraverso cui si sviluppa l’apprendimento. Mi risponde che non devo pensare al benessere. Resto nuovamente stranita, ma come la scuola non è “una comunità di dialogo di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni e al benessere?” (D.P.R. n° 249 del 24/06/98).
Mentre stiamo parlando, si alza apre la porta e continua con tono perentorio ad intimarmi di non disturbare.
Verità scomode
Ogni sistema rigido ispessisce i suoi confini, proietta all’esterno colpe e responsabilità. Non sa guardarsi, vive in un atteggiamento difensivo, che potremmo definire paranoideo. E’ una difesa dalla depressione, secondo la Klein.
Disturbo sistemi rigidi. Ogni coscienza consapevole non può fare altro che disturbare in fondo e creare alternative che mostrano che il cambiamento è possibile.
Ma l’ordine ha ragione d’essere, perché il cambiamento è caos. Non sappiamo dove può portare.
Cosa succede se iniziamo a chiudere gli occhi e sentire il nostro respiro? Cosa succede se in cerchio guardiamo l’altro? Perché ci fa tanto paura il corpo? Il semplice contatto visivo…. Cosa succede se anziché annoiarci in una lezione frontale, si prova con arte maieutica un percorso di co-costruzione della conoscenza?
I metodi di insegnamento che prevedono il gioco e l’ilarità, quindi la secrezione di dopamina, spaventano perché temiamo che ci allontanino dalle cose serie, dal lavoro, dalla disciplina, che precipitiamo in un caos senza più ordine.
Ma cosa significa apprendere? Cosa significa insegnare?
Torniamo a farci queste domande… gli studenti non sono tabulae rase da riempire, e noi i dispensatori di verità.
Ecco le mie esperienze con il potere dei sistemi. Alla ricerca di un mio potere per essere sempre più chi sono. E nelle spigolosità, sviluppare resilienza. Una dote particolare che ha chi sopravvive ai tanti colpi senza omologarsi né spegnere il sogno.
Ecco allora la risposta più degna alla preside nelle parole di Nietzsche:
“Non siamo ranocchi pensanti, apparecchi per obiettivare e registrare, dai visceri congelati, – noi dobbiamo generare costantemente i nostri pensieri dal nostro dolore e maternamente provvederli di tutto quel che abbiamo in noi di sangue, cuore, fuoco, appetiti, passione, tormento, coscienza, destino fatalità. Vivere – vuol dire per noi trasformare costantemente in luce e fiamma tutto quel che siamo, nonché tutto quel che ci riguarda: non possiamo affatto agire diversamente. [F: Nietzsche, La gaia scienza]”
Grazie di questo ennesimo dolore che mi apre il cuore.