A cura di Massimo Giorgini e Giovanni Santandrea
Sesto principio: non produrre rifiuti
Nel nostro inconscio niente è da rifiutare, ma semplicemente da risintonizzare e trasmutare.
(Carl Gustav Jung)
[G] Caro Massimo, eccoci ad approfondire il sesto principio della permacultura. E il lombrico è l’icona che convenzionalmente lo rappresenta. Tutta la vita del lombrico la dedica a consumare gli scarti organici presenti nel terreno, e in questo processo produce un humus eccezionale che fertilizza in modo ineguagliabile il terreno. In chiave personale, di gruppo e sociale, è evidente quanto sia significativo questo principio. Se sei d’accordo, potremmo iniziare focalizzandoci su cosa significhi, in ottica personale, l’invito a non produrre rifiuti.
Per questo mi viene da collegarmi al concetto di Ombra teorizzato da Jung. Per lo psicanalista svizzero l’Ombra è ciò che una persona crede di essere e non vorrebbe essere. Rappresenta quindi tutte le qualità sgradevoli che si tendono a rigettare, il lato oscuro in noi ovvero quello che si considera inaccettabile.
Quindi, se il paragone ha una sua validità e pertinenza, potremmo vedere il processo di integrazione della propria ombra quale chiave simbolica per applicare il sesto principio. Qual è la tua opinione?
[M] Caro Giovanni, l’archetipo dell’Ombra è sicuramente una chiave simbolica importante per questo principio, perché rappresenta gli aspetti di noi stessi che non accettiamo e che, quindi, rifiutiamo in modo generalmente inconsapevole. Possiamo immaginare l’Ombra come l’insieme dei nostri “rifiuti interiori” dove buttiamo anche aspetti importanti che potremmo integrare nella nostra vita. Il problema è che anche i rifiuti interiori creano delle problematiche nella nostra ecologia interna, proprio come le discariche nell’ambiente: prima di tutto è necessaria una grande quantità di energia per tenere nascosti questi aspetti ed, inoltre, queste parti rifiutate di noi stessi tendono a riemergere nei momenti meno opportuni e con conseguenze indesiderate.
É importante sottolineare, come ha fatto in modo meraviglioso Debbie Ford nel suo libro “Illumina il Tuo Lato Oscuro”, che l’Ombra influisce anche sul nostro modo di relazionarci con gli altri: tendiamo infatti a rifiutare le persone che esprimono gli aspetti che rifiutiamo in noi.
[G] Certo. Più accettiamo ed integriamo i lati nascosti che si trovano dentro di noi e più saremo in grado di accettare ed accogliere le persone del nostro gruppo, i colleghi di lavoro, i membri della comunità in cui viviamo.
Il contrario dell’accoglienza è il rifiuto. Alcuni studi accademici ci confermano che tra le varie emozioni negative che incontriamo nella vita, quella del rifiuto determina uno dei più alti livelli di dolore. Al confronto esperienze dolorose come paura, frustrazione, delusioni, non generano un dolore altrettanto forte.
Alcuni psicologi, risalendo alle radici del nostro percorso evolutivo, hanno trovato una possibile interpretazione di questo fatto.
Quando i nostri progenitori venivano rifiutati dalla propria tribù o dal proprio gruppo sociale questo significava una quasi certa condanna a morte.
Essere emarginati e ritrovarsi isolati, a quei tempi, voleva dire perdere la protezione del gruppo, l’accesso al cibo e la possibilità di trovare un partner per la generazione di una prole. Questo ci può far capire le ragioni per le quali al rifiuto sia associato un significato profondo e terribile.
Ben vediamo come questi tempi che stiamo vivendo abbiamo liberato forti pulsioni al rifiuto di tutto ciò che ci appare diverso. In un mondo globalizzato, che accentua incertezze e fragilità, è purtroppo abbastanza facile assistere alle esasperazioni degli atteggiamenti di rifiuto, in tutte le sue forme.
[M] Quello che emerge è un forte collegamento fra gli aspetti che rifiutiamo di noi e le persone che rifiutiamo perché diversi da quello che crediamo di essere. Detto questo, come possiamo applicare il principio “non fare rifiuti”?
A mio avviso le relazioni con gli altri sono uno strumento straordinario per favorire la nostra evoluzione. Quando entriamo in relazione con una persona e ci accorgiamo di avere atteggiamenti di rifiuto accompagnati da emozioni di rabbia, irritazione, paura, disprezzo, delusione, possiamo utilizzarla per conoscerci meglio e per integrare qualcosa di noi che evidentemente non abbiamo ancora accettato.
Possiamo chiederci: “quale aspetto di questa persona mi spinge a rifiutarla?” Da questa domanda nascono delle risposte che descrivono il nostro modo di percepire la persona: “è arrogante”, “è incapace”, “è prepotente”, “è cattiva”, ecc. Quando identifichiamo le qualità che ci spingono a rifiutare la persona, riconosciamo allo stesso modo una qualità che rifiutiamo di noi stessi. Per favorire il processo di integrazione possiamo chiederci: “quando sono stato arrogante? quando sono stato incapace?”, e così via.
Se riusciamo ad individuare sinceramente dei momenti in cui abbiamo espresso quella qualità che tanto ci disturba, arriviamo ad una nuova consapevolezza che ci permette di integrare una parte di noi stessi fino a quel momento rimasta nell’ombra.
[G] Il collegamento tra gli aspetti che rifiutiamo di noi e le persone che rifiutiamo di cui tu parli mi fa sorgere un’ulteriore domanda.
Come comportarsi quando i nostri lati Ombra, e quelli che percepiamo negli altri, ci sembrano insormontabili?
Provo a spiegarmi meglio. Se rifiuto un lato Ombra presente in me, questo non mi permette di vivere armoniosamente, ma penalizza principalmente me.
Quando invece il rifiuto è rivolto ad un’altra persona, semmai con la quale sono a stretto contatto di lavoro, o con la quale collaboro nello stesso gruppo o associazione, e sento proprio di non farcela ad accoglierla serenamente, che fare? Credo che a tutti coloro che hanno fatto un minimo di esperienze di vita in gruppi sia capitata almeno una volta questa situazione. Certamente impostare con quella persona un rapporto che cerca di applicare i principi della Comunicazione Non Violenta, può aiutare molto, ma non sempre è sufficiente a costruire un rapporto sereno e rilassato. Nel tempo l’altra persona certamente lo percepisce e questa tensione può aumentare, ed accrescere in entrambi sofferenza e disagio. Possiamo trovare un modo più maturo ed autentico per vivere tale disagio, senza per forza arrivare al rifiuto esplicito e doloroso dell’altro?
[M] Molto interessanti le tue domande che ci consentono di approfondire l’argomento. Credo che un modo maturo ed autentico possa essere quello di cominciare a vedere le relazioni come un’occasione di apprendimento e di evoluzione personale. Ogni relazione ci può insegnare qualcosa, anche quelle che ci sembrano difficili e facciamo fatica ad accettare. Tuttavia vorrei sottolineare che, a volte, rimanere in una relazione non è detto sia la scelta migliore. Faccio un esempio per capire meglio. Se mi trovo in un gruppo di lavoro in cui il responsabile ha una forte componente narcisista, che si manifesta nella mancanza di empatia e di ascolto, nell’accentramento su di sé dei meriti e dei riconoscimenti, il disagio che provo può essere dovuto al rifiuto della mia “parte” narcisista. Attivando un processo per riconoscere ed abbracciare i miei aspetti narcisisti (“Anche io ho bisogno di essere ascoltato, guardato ed ammirato.”, “Anche io ho bisogno di essere riconosciuto per quello che faccio.”, ecc) posso cominciare a richiedere una soddisfazione di questi bisogni al responsabile. Ma se questo non avviene ed il responsabile non tiene in nessuna considerazione le mie richieste, che fare? Se rimanessi in questo gruppo di lavoro rifiuterei di ascoltare me stesso ed i miei bisogni. Forse cambiare mi aiuterebbe a vivere un’esperienza più matura ed autentica: facendo questa scelta rispetterei me stesso ed il mio responsabile, che in questo momento non ha nessuna voglia di cambiare. Non farei nessun rifiuto, solo un cambiamento.
Mi rendo conto che in questo esempio ho descritto un contesto difficile, dove non è facile essere autentici ed utilizzare le relazioni come un modo per conoscerci meglio e per valorizzarci. Detto questo mi sorge un’altra domanda: quali sono le caratteristiche dei contesti che possono facilitare questo processo? E come possiamo crearli o favorire la loro nascita?
[G] Mi ritrovo molto in quello che hai detto. Le situazioni difficili non hanno mai un “solo colpevole”. Se si manifestano problemi, questi dipendono da un articolato schema di relazioni e dinamiche presenti nel gruppo. Questi schemi fanno emergere – senza essere in grado di contenerli – i differenti ‘lati oscuri’ dei componenti del gruppo. Le vicende possono evolvere in vari modi, ma il più delle volte si innesca la caccia al colpevole. Se viene individuato il classico ‘capro espiatorio’, il gruppo poi tende ad stigmatizzarlo, emarginarlo, fino ad arrivare alla sua espulsione dal gruppo. Processi di questo tipo rappresentano un chiaro indicatore dell’incapacità del gruppo di sapersi rigenerare, trovando nuovi schemi di lavoro e di modalità relazionali. Sono situazioni molto dolorose dove di fatto tutti ne escono impoveriti e perdenti.
Non dobbiamo però pensare che questi processi rigenerativi siano sempre possibili, tutto dipende dal rapporto di forza tra le spinte costruttive e quelle distruttive. Una persona da sola, pur animata dai più sinceri propositi positivi, è difficile che riesca a sovvertire una situazione complessa, con forti accenti negativi.
Ma torniamo alla tua domanda. Mi viene da dire che per favorire relazioni sane e positive tra i membri di un gruppo, tali da non arrivare mai al rifiuto di qualcuno, le premesse definite da tutti i principi della permacultura che abbiamo esaminato sono importanti. Se in modo sistematico il gruppo fosse in grado di applicare i 12 principi, il problema del rifiuto non esisterebbe, semplicemente perché il gruppo non potrebbe arrivare a situazioni così gravi ed irreversibili.
Nel nostro progetto siamo arrivati ad esaminare il sesto principio, abbiamo la conferma che ciascun principio è strettamente legato in termini sistemici a tutti gli altri. E questa è una considerazione fondamentale per fare un salto di qualità nell’applicazione dei principi di permacultura.
Nello specifico, questo sesto principio ci suggerisce che il tema dei conflitti e dei conseguenti rifiuti relazionali, possa essere affrontato dal gruppo in momenti non d’emergenza, allo scopo preventivo per dare solidità a meccanismi di sostegno reciproco da adottare quando poi emergono i conflitti. La via della consapevolezza è sempre una medicina potente.
[M] Credo anche io che la creazione di contesti che non producano “rifiuti relazionali” sia il frutto di un processo che si sviluppa nel tempo, creando una cultura capace di riciclare conflitti ed emozioni difficili. Una cultura che valorizza le diversità ed il confronto, che percepisca l’intima connessione che esiste tra l’individuo ed il gruppo o la comunità, che consideri le relazioni come un canale per imparare insieme, per conoscersi e per diventare il meglio di noi stessi.
L’articolo originale è stato pubblicato su Vivere Sostenibile – n. 53 Ottobre 2018