Ninsiima Florence sta lavorando nel suo campo di verdure nel villaggio di Nyakiju, Muyumbu, nel sud-ovest dell’Uganda. Sta oscillando l’efuka, una zappa a mano tradizionale che viene utilizzata dagli Abataka, il “popolo della terra“, cosi viene chiamato il gruppo culturale di Florence, il Bakiga. Lei colpisce la terra dura come ferro con tutte le sue forze, fessurando la dura superficie che si apre per rivelare un ventre di suolo minerale morbido.
Florence coltiva ogni anno cavoli e cavolfiori, che vende per coprire le spese scolastiche dei suoi figli e le spese di mantenimento della famiglia, compreso il cibo, i vestiti, il trasporto, e i farmaci antiretrovirali: sia lei che il marito sono positivi all’HIV.
Nella lingua locale di Rukiga, Florence è chiamata omuhingi, che significa “persona che scava.” Florence è una contadina di sussistenza. Come tale, fa parte dell’80% circa della popolazione dell’Uganda che vive in villaggi, è proprietaria di una manciata di orti, e fa crescere il cibo per la sopravvivenza quotidiana.
La maggior parte degli agricoltori di sussistenza in Uganda sono donne, e nel sud-ovest dell’Uganda, in particolare, le donne sono culturalmente responsabili di scavare e far crescere cibo per sfamare le loro famiglie.
Oggi Florence sta piantando piantine di cavolo cresciute dai semi acquistati al mercato per 12.000 scellini ugandesi (circa $ 5,06) a pacchetto. Si tratta di un costo elevato considerando che il reddito della famiglia ammonta solo da $ 1 a $ 2 al giorno.
Per tre mesi, Florence coltiverà religiosamente le sue verdure: diserbatura a mano, gestione di parassiti e applicazione di concime organico. Quando non c’è la pioggia, utilizzerà una bacinella per trasportare acqua da un fossato vicino per rinfrescare il suo orto riarso.
“Se non si innaffia, non si possono pagare le rette a scuola” dice Florence. E se non ci sono soldi per le rette scolastiche, non ci sono soldi per il cibo. In Uganda c’è una grave lacuna tra l’agricoltore di sussistenza e il sostegno governativo.
Meno del 4% del budget nazionale dell’Uganda per il 2013-2014 è stato allocato al sostegno agricolo per i coltivatori, lasciando la maggioranza degli Ugandesi sola nei propri campi di cavoli, a scavare la terra e a risparmiare per le proprie sepolture.
Ma il divario tra il governo e gli agricoltori si sta dimostrando un contesto ideale per i modelli di sviluppo stranieri, questo significa che l’aiuto a Florence e altri agricoltori di sussistenza in Uganda, sta arrivando – un tipo di aiuto strategico, in ogni caso.
Le nazioni ricche del G8 stanno orgogliosamente portando la bandiera di un nuovo paradigma di aiuti internazionali che predica “la produzione alimentare rafforzata” ed è rivolto agli agricoltori e alle terre fertili dell’Africa e, in particolare, dell’Africa sub-sahariana.
La chiamano la Nuova Alleanza per la Sicurezza Alimentare e la Nutrizione e invitano al tavolo il settore privato per “collaborare” con i governi africani e i piccoli coltivatori.
L’obiettivo stabilito dal G8 è aumentare la produzione di cibo attraverso la modernizzazione della tradizionale agricoltura di sussistenza in Africa, stressando la meccanizzazione rispetto al lavoro manuale, i semi migliorati (che vuol dire geneticamente modificati) rispetto ai semi indigeni, il fertilizzante sintetico rispetto alla gestione a rotazione delle colture.
Aumentare la produzione agricola in Africa, afferma il G8, aumenterà anche la sicurezza alimentare e migliorerà i tassi impressionanti di malnutrizione. Non c’è dubbio che la malnutrizione è un problema critico in Uganda, provocando una crescita stentata nei bambini e l’anemia nelle donne in gravidanza, e l’aumento del tasso di abbandono della scuola primaria e secondaria.
Ma le motivazioni del G8 riguardano solo come affrontare la malnutrizione, o questo paradigma di aiuto è piuttosto l’attuazione di politiche di privatizzazione dell’agricoltura in Africa?
I critici, tra cui l’attivista e scrittore Raj Patel, sostengono che sia la seconda. Scrivendo sul Guardian, Patel suggerisce che la Nuova Alleanza è uno strumento per “portare la politica lontano dalla fame”, ignorando volutamente le cause della malnutrizione – tra cui la disuguaglianza socio-economica e la povertà – e beneficiando di un maggiore controllo delle sementi, della terra, e dei mercati di produzione alimentare.
Patel chiede che la gente allunghi uno sguardo critico su chi siede intorno al tavolo del G8: i politici, le multinazionali delle sementi e dell’agrobusiness, tra cui Monsanto e DuPont, le grandi ONG della beneficienza e le fondazioni come la Bill and Melinda Gates Foundation.
La Monsanto ha già impegnato $ 50 miliardi per la Nuova Alleanza, desiderosa di assicurarsi il suo posto a capotavola e dei mercati delle sementi in Africa.
La Nuova Alleanza G8 non è un tavolo da pranzo dove gli ospiti chiedono l’un l’altro di passarsi il polpettone e il discorso democratico determina chi ottiene la quantità del pasto. Si basa sull’impresa del libero mercato.
Quindi quanto otterrà la Monsanto in confronto agli agricoltori come Florence? Il passato potrebbe fornire una risposta, ma la Nuova Alleanza ha strategicamente “sciolto la storia come un dente nella coca-cola“, dice Patel.
Da un esame più approfondito della storia agricola dell’Uganda, la Nuova Alleanza G8 diventa un flashback ai programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale (SAP) degli anni Novanta. Anche i SAP spingevano per una maggiore produzione di cibo e la liberalizzazione dei mercati agricoli, promettendo vantaggi economici e sociali. Allora, cos’è successo?
Le piantine di cavolo di Florence oggi sono in grado di fornire una parte della storia. Secondo Tukundane Cuthert, coordinatore del programma di agricoltura sostenibile dell’ONG ugandese Caritas Kabale, gli agricoltori di sussistenza erano abituati a propagare il cavolo indigeno, tagliando in quarti il gambo in basso e reimpiantandolo nel terreno. Gli agricoltori avrebbero scelto il cavolo migliore, raccogliendo il capo per il consumo, e ripiantando il gambo.
Negli anni ‘90, i mercati dell’Uganda aprirono all’impresa agro-alimentare, aderendo ai termini dei SAP, e poco dopo, semi di cavolo geneticamente modificati importati dai Paesi Bassi hanno iniziato a inondare i mercati locali.
“Il cavolo dei Paesi Bassi è stato adattato con la forza [in Uganda]”, ha detto Cuthbert. Mentre ci vogliono sei mesi per raccogliere il cavolo indigeno, per raccogliere il seme importato bastano solo tre mesi. Gli agricoltori di sussistenza sono stati cooptati per produrre più cibo, non per i consumi delle famiglie, ma per la vendita e l’esportazione, così hanno comprato il nuovo seme sul mercato e hanno rinunciato a diffondere i propri cavoli.
I SAP hanno così avviato un ciclo di agricoltori che acquistavano e vendevano sementi, costruendo, in ultima analisi, la dipendenza degli agricoltori dalle aziende produttrici di sementi. La mancanza di regolamentazione del governo sui prezzi, e una maggiore concorrenza sui mercati, ha portato gli agricoltori a perdere denaro verso gli intermediari e a coprire a malapena i costi di produzione.

Il costo della vita oggi per Florence e per gli altri agricoltori di sussistenza è in aumento, anche se lei guadagna meno sul mercato e non ha più accesso al cavolo indigeno.
“Quando si parla del prezzo”, dice Florence, mentre si china a sotterrare le radici di una piantina di cavolo nella terra nera, “gli agricoltori vengono super sfruttati”.
L’impatto dei SAP in Uganda è riuscito ad aumentare la produzione alimentare e il PIL nazionale, ma solo a spese di quella maggioranza dell’80% di agricoltori di sussistenza della nazione, i cui costi di produzione hanno mangiato i profitti e il cui benessere si è deteriorato.
Kigezi Healthcare Foundation in Uganda stima che il 60 per cento dei bambini sotto i cinque anni nel villaggio di Florence del Nyakiju sono affetti da malnutrizione e crescita stentata.
Le Abahingi del sud-ovest dell’Uganda sono organizzatrici naturali
Esse formano gruppi di scavo con altre vicine donne, amici e parenti, e si incontrano mensilmente per condividere idee e frustrazioni, organizzare i loro appezzamenti comuni, e assegnare i giorni per pulire, piantare diserbare e raccogliere insieme. Questi gruppi indigeni si sostengono l’un l’altro attraverso lo scambio di semi, attrezzature e lavoro. La loro grande sfida oggi è l’emarginazione politica ed economica da parte del governo ugandese.
A Florence ed il suo gruppo mancano i modi per comunicare efficacemente le proprie esigenze e fare pressione per il sostegno del governo. In un sondaggio campione su 10 famiglie nel villaggio di Florence, solo il 15% degli agricoltori ha partecipato a programmi governativi di formazione o ha ricevuto input dal Servizio Consultivo Nazionale per l’Agricoltura, con il 100% di questi agricoltori che sostengono che i semi e il bestiame che hanno ricevuto (le varietà “migliorate”) sono morti.
Gli agricoltori che hanno accesso alla lobby del governo ugandese non sono le “persone che scavano”, ma i piccoli agricoltori che pagano altri per lavorare la loro terra. La Nuova Alleanza G8 per la Sicurezza Alimentare e la Nutrizione lavorerà, quindi, per questa minoranza di agricoltori in Uganda. Purtroppo, non funzionerà per la maggior parte degli agricoltori di sussistenza dell’Uganda, la cui malnutrizione colpisce più duramente.
Il G8 non sembra aver collegato i punti causali tra privatizzazione e cattive condizioni di salute, tra la malnutrizione e la povertà. O forse, come afferma Patel, la cancellazione della storia era parte del piano. In entrambi i casi, la Nuova Alleanza G8 per la Sicurezza Alimentare e la Nutrizione appare e suona un po’ come i SAP di ieri – offrendo la falsa promessa che più cibo significa meno malnutrizione per gli agricoltori più poveri dell’Africa.
In realtà, si tratta del vecchio gioco di travestire il lupo della privatizzazione con i panni della pecora degli aiuti per aprire i nuovi mercati globali, mentre le donne come Florence crepano, scavando la terra per sfamare le loro famiglie.
Trina Moyles è una scrittrice canadese e giornalista freelance. La sua scrittura si concentra sulle questioni sociali e ambientali delle comunità rurali in Africa orientale, in America Latina e nei Caraibi. Negli ultimi tre anni, sta lavorando su un libro intitolato “Le donne che scavano”, sulla vita delle contadine donne provenienti da sette paesi nelle Americhe, in Africa orientale e in Asia. Visita il suo sito web: www.trinamoyles.com.
Tradotto da Simona Caracciolo
© 2014 Trina Moyles. Tradotto e pubblicato con il permesso dell’autore. L’articolo è apparso nel numero di Gennaio/Febbraio 2014 di Briarpatch.
Fonte: http://briarpatchmagazine.com/articles/view/cracking-the-soil-in-uganda